mercoledì 15 Gennaio 2025

Helena Oliviero fa il punto sulla Colombia: “Non è possibile lo scambio diretto tra farmer e compratore se non per piccole quantità”

La trainer e professionista: “Il principale mercato di destinazione sono gli USA, a seguire UE ed Asia. Nella regione, date le condizioni climatiche e di altitudine, la maggior parte di caffè portato ad analizzare in laboratorio, è specialty. Tuttavia questa percentuale non rispecchia il caffè importato, che viene mischiato a quello difettato e maltrattato nel trasporto e stoccaggio."

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MILANO – Spesso si sente parlare della Colombia e del suo specialty, dal mondo delle competizioni a quello di roasters e baristi specializzati che lo propongono in estrazioni alternative, ma quanto si conosce realmente del contesto entro cui trova le sue radici? A parlarne torna Helena Oliviero, che da esperta assaggiatrice, formatrice che si divide per lavoro e vita privata tra Italia e Colombia, ha un punto di vista unico e concreto di questo Paese e del suo mercato caffeicolo.

Si farà riferimento alla Finca Palma Roja che è la farm di famiglia dove risiede con il marito e figlia. Si trova nella vereda (frazione) China Alta nella provincia di Ibagué
Helena descrive bene.

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“Ogni zona della Colombia ha la propria storia economica e politica di cui tenere conto”

“Ci sono quelle agricole più sviluppate e facilmente accessibili grazie alla presenza di strade e altre invece di alta produzione ma che risultano più dimenticate all’interno dei progetti di sviluppo. Il Tolima, la regione dove si trova la nostra farm, in generale non gode di buona viabilità: i 25km che ci dividono dalla città, necessitano di un tempo di percorrenza di circa 4 ore con auto 4×4 su una strada di montagna sterrata, che spesso resta bloccata da valanghe.

Invece, dalle farm al villaggio locale, ci sono solo sentieri e così i prodotti vengono trasportati a spalla o con i muli. È chiaro che in queste zone diventa tutto difficile: la salute, l’educazione, la connettività di internet o rete cellulare. In alcuni casi manca anche la luce elettrica.”

Con 566mila famiglie produttrici di caffè in Colombia, il 96% di questi sono piccoli proprietari (meno di 5 ettari) responsabili del 60% della produzione nazionale, quali sono le difficoltà maggiori che incontrano?

Questa frammentazione è un problema per trovare sbocchi sul mercato, o trovano una coesione tra questi piccoli farmer?

“Di solito non sono tanti ad instaurare relazioni con stranieri o che parli inglese. C’è poca trasparenza da parte degli esportatori che vendono direttamente: non condividono il contatto con i produttori e comprano sul territorio al valore della borsa. D’altra parte i piccoli produttori hanno la necessità di ricevere il pagamento al momento della vendita e questo meccanismo rende difficile conservare per mesi il caffè del raccolto per poi poterlo proporre ad un prezzo maggiore.

Certo in Colombia ci sono tantissime associazioni di produttori spesso sviluppate con l’appoggio di progetti statali per riuscire ad avere migliori sbocchi di mercato. Questo sistema facilita la commercializzazione della materia prima, danno la possibilità di svolgere le analisi qualitative in laboratorio come di partecipare alle fiere di settore (occasioni per cercare nuovi clienti), si offrono come spazi per stoccare il verde dei soci e infine possono contare su diversi incentivi statali.

Non sono tante le organizzazioni strutturate ed efficienti e purtroppo spesso di una gestione poco strutturata e di una limitata partecipazione da parte dei soci. La vendita dei prodotti rimane così realisticamente, una sfida individuale.”

Esiste anche una forte polarizzazione tra i tanti piccoli farmer e i pochi grandi proprietari?

“Cambia soprattutto ciò che si è in grado di fare. I figli dei piccoli produttori spesso rimangono confinati nella solita zona e vivono nelle medesime condizioni socio-economiche dei loro genitori. Per lo stesso principio, spesso i grandi proprietari appartengono a famiglie benestanti.

Sembra chiaro che la loro condizione è estremamente diversa da quella in cui si muove il piccolo produttore: loro hanno potuto permettersi una buona educazione, hanno accesso ad un migliore servizio di salute privata, sono stati spesso all’estero. Tutto questo dà la possibilità di potersi confrontare meglio con un mercato straniero o anche di cercare diversi sbocchi nel proprio Paese.

Sono imprese che spesso gestiscono anche altre attività collaterali al caffè, ad esempio nel turismo, nell’esportazione, nei centri di processo e altre operazioni al di fuori della finca. La maggior parte degli specialty rinomati, ormai solitamente utilizzati nelle gare, provengono da grandi proprietari oppure sono frutto di processi che hanno comportato un investimento importante. “

La Federazione del caffè colombiano è un supporto oppure risulta paradossalmente un ulteriore barriera tra i piccoli contadini e gli acquirenti?

“La “Federación Nacional de Cafeteros” (FNC) nel tempo ha aiutato nella costruzione di strade, nell’installazione della luce elettrica e in generale nello sviluppo delle comunità rurali. Attualmente sono in corso dei progetti relativi al rinnovamento o alla creazione nuovi lotti.

Per poter esportare caffè per quantità superiori ai 50kg, è necessaria la figura intermedia di un esportatore registrato che rispetti i requisiti della Federazione e che si occupi di pagare una tassa per ogni libra esportata. Un produttore quindi, non può direttamente vendere all’estero il suo raccolto e neppure ricevere un pagamento internazionale se non tramite l’esportatore.

In Colombia non è quindi possibile uno scambio diretto tra farmer e compratore se non per piccole quantità che però avranno un costo di logistica molto alto da sostenere.

A questo si deve aggiungere il fatto che il caffe colombiano deve rispettare alcuni standard di processo e di crivello, rispecchiare determinate note di tazza e precisi difetti per essere consono all’esportazione.

Tutto ciò che non rientra nei parametri, da qualche anno può uscire sotto la dicitura di “prodotto colombiano” e questo permette l’esportazione di verde di scarto ma anche degli specialty che molto spesso non rientrano nei range sensoriali e/o fisici fissati dalla FNC. Per esempio il peaberry e i crivelli inferiori derivati anche da varietà come Moka o specie Eugenioides oppure processi sperimentali, vengono esportati come “scarto”.”

Nel 2022 la svalutazione del Peso in Colombia ha cambiato ulteriormente le carte in gioco tra l’import ed export?

“In riferimento ai produttori della mia zona, quando il pesos si svaluta, solitamente il prezzo del caffè nel mercato interno incrementa. Nel 2022 si è alzato il costo di acquisto del caffè in pesos.

A quel punto molti hanno iniziato a vendere più caffè verde (in pergamino non secco) e a non selezionare i chicchi difettosi, perché costituivano un costo di produzione più alto.

Allo stesso tempo i prodotti di importazione sono stati soggetti ai rincari: fra questi per esempio i fertilizzanti, che hanno raggiunto il doppio o il triplo del loro valore iniziale. Alcuni produttori hanno continuato a fertilizzare aumentando così il costo di produzione, altri hanno evitato, abbassando però la qualità della raccolta successiva.

In sostanza, una volta davanti ad un aumento, si perde potere di acquisto e attualmente il costo della vita con un salario minimo colombiano è più alto rispetto agli anni prima del 2022.”

Quali sono i maggiori sbocchi del caffè della Colombia e quanto di questo è considerato specialty?

“Il principale mercato di destinazione sono gli USA, a seguire UE ed Asia. Nella regione, date le condizioni climatiche e di altitudine, la maggior parte di caffè portato ad analizzare in laboratorio, è specialty. Tuttavia questa percentuale non rispecchia il caffè importato, che viene mischiato a quello difettato e maltrattato nel trasporto e stoccaggio.

Si commercializza in base al “factor de rendimiento” ovvero nelle quantità di caffè in pergamino secco necessarie per riempire un sacco da 70kg di caffè verde in grano. La “pasilla” (scarto) creata in piantagione viene anch’essa venduta a parte o mischiata da produttori e commercianti con del verde “pulito”, così da aumentarne la quantità e allo stesso tempo rimanere all’interno degli standard stabiliti dal “factor” per non alterarne il prezzo.”

I processi non standard (anaerobico, fermentazione prolungata, infusioni ecc.) stanno aiutando ad ottenere prezzi più alti per i coltivatori?

“Negli ultimi anni oltre ai processi tradizionali è cresciuta la richiesta di quelli alternativi che cambiano notevolmente le caratteristiche sensoriali in tazza. Più recentemente è stato dichiarato da alcuni produttori l’uso di infusioni o l’aggiunta di lieviti.

Questi metodi sono diventati popolari attraverso il circuito delle gare, per via dei loro sentori ben chiari. Hanno trovato spazio anche tra i nuovi consumatori di specialty. I produttori che applicano queste tecniche hanno venduto lotti a prezzi incredibili, in alcuni casi anche per alcune migliaia di dollari al kg, posizionandosi nei campionati SCA.

Tuttavia è importante ricordare che per ottenere determinati risultati, la maggior parte di questi farmer hanno previsto un investimento in formazione e in attrezzature notevole: bioreattori, bombole di azoto o CO₂ ma non sono strumenti accessibili a qualunque produttore.”

E’ vero che i migranti dal Venezuela sono la maggioranza della forza lavoro nei campi?

“Nella nostra zona non conosco famiglie di venezuelani, eccetto per alcuni lavoratori stagionali. Prima del COVID c’era abbastanza movimento di raccoglitori e lavoratori agricoli. Con la pandemia non è stato più possibile appoggiarsi a risorse esterne durante la raccolta, dato che per passare da una regione all’altra c’era bisogno di un permesso speciale.

Con il ritorno alle attività normali, molti venezuelani hanno deciso di tornare al proprio paese. La maggior parte della forza lavoro è costituita dalla stessa famiglia proprietaria del terreno. In molti casi si appoggiano a dei lavoratori fissi o comunque ben radicati nella regione.

È invece diverso durante il periodo della raccolta, quando si impiegano gli “andariegos” che vengono a cercare lavoro da tutte le regioni colombiane, spostandosi di finca in finca a seconda delle necessità.”

Come mai l’Italia resta fuori dal mirino del caffè della Colombia fin qui?

“In genere il caffè colombiano ha caratteristiche di profilo che non rientrano nel gusto italiano, perché hanno spesso un’acidità spiccata, note di frutta citrica, caramello e cioccolata. In Italia culturalmente non siamo abituati all’acidità prediligendo un caffè più corposo, spesso amaro con note di cioccolata e frutta a guscio. Inoltre, in genere a livello commerciale il caffè colombiano è più caro di altri lavati per la qualità riconosciuta. “

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