VENEZIA – Sono passati ben 90 anni dall’apertura delle porte dell’Harry’s Bar a Venezia: un tempo lunghissimo se lo si paragona all’aspettativa media dei locali al giorno d’oggi, che al massimo durano un anno prima di chiudere i battenti. La caffetteria storica invece accorcia ancor più le distanze verso il centenario, nonostante la pandemia lo stia costringendo a tenere le serrande abbassate. Leggiamo la storia dall’articolo di Laura Leonelli su ilsole24ore.com.
Harry’s Bar spegne 90 candeline
Buon compleanno, Harry’s Bar! Buon compleanno a Giuseppe, Giulietta, Arrigo e Giuseppe jr Cipriani. E buon compleanno a Ernest, nel senso di Hemingway, a Truman, perché Capote, a Peggy, nel senso di Guggenheim, perché questo straordinario anniversario, i primi novant’anni del più famoso bar di Venezia, e del bar che ha portato Venezia nel mondo, è una grande festa di famiglia, quella delle cinque generazioni di Cipriani e di quasi un secolo di blasonati e affezionati clienti che, dal 1931 a oggi, hanno percorso i pochi metri di Calle Vallaresso, sono giunti al numero 1323, hanno oltrepassato una porta a vetri leggermente opaca e assolutamente discreta, e sono entrati nella storia.
Già il fondatore, Giuseppe Cipriani, raccontava che moltissimi vantavano la loro presenza all’inaugurazione, il 13 maggio, un mercoledì per la cronaca, e se tutti quei primi ospiti fossero stati davvero tali si sarebbe riempito non un locale di 70 metri quadri, ma Piazza San Marco.
Il segreto del successo dell’Harry’s Bar, quel sentirsi amabilmente a casa, protetti ma liberi, era ed è ancora lì
Nelle dimensioni, nella sobrietà dell’ambiente, negli arredi su misura, dalle sedie alle posate ai bicchieri, e nell’acustica perfetta che univa le voci del ciacolar cosmopolita e le mescolava al sottofondo del bar e della cucina. Cucina, altro fondamento. Nessun esibizionismo “di stelle e stellette”, come dichiara Arrigo Cipriani, 89 anni di freschezza battagliera: «La nostra è la tradizione della cucina familiare, la cucina delle donne, ricette come il risotto con scampi e fondi di carciofo, baccalà, fegato alla veneziana, la cucina che appartiene a un’epoca senza frigorifero, quando gli ingredienti erano freschi perché appena colti e pescati».
Giuseppe Cipriani, classe 1900, aveva imparato da sua madre l’arte di cucinare e di accogliere
L’arte del sacrificio, della fatica, l’aveva appresa dal padre. Nel 1902 padre, madre e otto figli, lasciano Verona ed emigrano in Germania. I tedeschi chiamano gli italiani itaka, con disprezzo, «ma io – ricordava Giuseppe – crescevo da tedesco e mi sentivo tedesco. La Prima guerra mondiale ha segnato la fine della spensieratezza e non capivo perché dovessi essere nemico di quel Paese che amavo come il mio».
I Cipriani tornano a Verona. A quattordici anni Giuseppe è aiuto in una pasticceria e a diciassette è già il responsabile. Ma è insofferente, vuole di più perché vuole sapere di più, e cambia, diventa cameriere, «nel frac stavo benissimo e qualche ragazza mi sbirciava con rispetto e ammirazione». Poi diventa chef de rang all’Hotel des Alpes a Madonna di Campiglio, scende a Palermo, risale a Venezia, Hotel Europa, «e un giorno il direttore mi ha detto che avrei dovuto fare il barman: “Lei ha il tono giusto con i clienti, suscita simpatia e sa le lingue”». Dunque barman, e anche marito perché nel 1926 Giuseppe sposa Giulietta.
Storia un po’ maschile quella dei Cipriani, come vuole la tradizione italiana, ma è Giulietta che un giorno tamburella alla finestrina sul retro dell’Europa e chiama il marito per dirgli di aver trovato il loro locale. È lì dietro, un magazzino di corde in Calle Vallaresso con affaccio su Canal Grande e oltre solo l’acqua. Chi ha tentato di aprire qualcosa, ha fallito. Giuseppe invece ha le idee chiare, vuole che i clienti arrivino perché “sanno”, non a caso. Ma non ha i soldi. Arriveranno anche quelli.
Giuseppe Cipriani li aveva serviti con affetto e discrezione. Erano tre americani, zia, amico della zia, nipote, forse scapestrato, sicuramente a un passo dall’alcolismo. Venezia doveva essere la cura. Gli effetti sono scarsi. I tre litigano, e nella hall dell’Europa, senza un soldo, rimane il nipote, Harry Pickering. Giuseppe gli presta 10mila lire per saldare il conto e tornare in America. Nel frattempo è il 1929. Nessuno salda i debiti in tempi di crisi. Invece due anni dopo Harry torna a Venezia, restituisce il prestito, a cui aggiunge 30mila lire per finanziare il sogno di Giuseppe e Giulietta. Con delicatezza e riconoscenza il bar si chiamerà Harry’s Bar. Nel 2001 al nome di battesimo si è aggiunto il titolo di “patrimonio nazionale per essere stato testimone della cultura del XX secolo a Venezia”, come recita il Ministero dei Beni Culturali, e l’Harry’s Bar è l’unico locale pubblico in Italia a vantare un simile riconoscimento.
Un locale testimone per testimoni del secolo
Un giorno degli anni Trenta ai tavolini siedono quattro teste coronate, Alfonso XIII di Spagna, la regina d’Olanda, re Paolo di Grecia e re Pietro di Jugoslavia. Qualche tempo dopo, in anni in cui esisteva ancora un equilibrio tra turisti e cittadini, un’epoca in cui si sentiva la civitas veneziana, entra all’Harry’s Bar Ernest Hemingway.
Dal 1949 al 1950 avrà il suo tavolo fisso e il suo Martini, che lo scrittore chiama Montgomery «perché – spiegava Giuseppe – voleva rispettare tra gin e vermut le stesse proporzioni che il famoso generale era solito applicare, quando combatteva, tra i suoi soldati e quelli nemici: quindici a uno». Orson Welles invece aveva altre proporzioni, e «lo sentivo arrivare dalla calle, grande come un armadio, entrava e aveva fame e sete. Si mangiava subito due piatti di pierini e beveva tutto d’un fiato due bottiglie di Dom Perignon». Per il suo celebre Bellini, Giuseppe sceglierà il prosecco, unito alla polpa di pesca bianca. E l’arte veneta ispira anche un altro capolavoro, il carpaccio. Un nome, un piatto che ormai conoscono tutti.
Quando, invece, nel 1957 il figlio Arrigo, allora venticinquenne, entra sulla scena dell’Harry’s Bar – dopo un tirocinio alla cassa e non solo – i clienti non lo riconoscono
«Dov’è Cipriani?» chiedono. Sono io. «No, quello vero», rispondono. È una donna a intuire che quel giovane uomo, di sublime eleganza nel portamento e nella scelta della cravatta, non è solo l’erede dinastico, ma qualcosa di più. All’Harry’s Bar Peggy Guggenheim entrava con i suoi amatissimi cagnolini, sedeva al tavolo, «e quando c’era lei, c’era lei», ricorda Arrigo. Si devono essere capiti al volo, specchio del valore dell’uno e dell’altro, perché Arrigo suggerisce a Peggy di acquistare Palazzo Venier e, anni dopo, Peggy chiede ad Arrigo di essere testimone del suo testamento. Testimoniare il talento, la libertà, l’indipendenza delle idee, l’arte di essere se stessi. Molto Cipriani. Molto Harry’s Bar. Molto Venezia.
Harry’s Bar
Per l’anniversario, la famiglia Cipriani, già presente in 12 città, da New York a Hong Kong, annuncia 5 nuovi progetti. Cipriani Resort a Torcello Sull’isola della laguna, dove nel 2015 Arrigo Cipriani ha acquistato un immenso orto dedicato alla coltivazione dei carciofi, a fine 2022 aprirà un resort per 50-60 ospiti. A Palazzo Franchetti a Venezia, Cipriani curerà l’allestimento della sala ristorante, in esclusiva per i visitatori di mostre ed eventi.
Cipriani Milano A Palazzo Bernasconi, inaugurerà un progetto di ospitalità completa con due ristoranti, 15 suite, una Socialista Lounge, e un centro benessere e fitness. Casa Cipriani New York Nell’inconfondibile Battery Maritime Building, aprirà quest’estate, il primo club della famiglia: ristoranti, jazz café, salotti, terrazze, un centro benessere e 47 luxury rooms con vista sul ponte di Brooklyn. Harry’s Table by Cipriani Nell’Upper West Side, su 2.600 mq, un ristorante, un caffè, una pasticceria, ma anche un mercato dove trovare gli ingredienti della freschezza della cucina italiana.