MILANO – “Olivier Scala, nel suo splendido libro Thés, mi definì Le fou du thé. E, probabilmente aveva ragione”. Scala è un esperto, fine degustatore francese. Il “fou” è Guido Cattolica che ha reso possibile quello che per molti era impossibile: coltivare il tè in Italia.
La bevanda si ottiene da una speciale varietà di camelia, nota come Camellia sinensis, sorella minore delle comuni piante ornamentali, che cresce solo in determinate condizioni climatiche.
E quelle nostrane non sono le più ottimali. Comunque, i tentativi non sono mancati. Verso la fine dell’800 all’Orto botanico di Pavia tentò l’impresa Giovanni Briosi, professore di botanica.
Negli anni ’30 fu la volta di Gino Pollacci, anche lui professore di botanica, che riuscì a ottenere una varietà che chiamò Camellia thea ticinensis, in grado di resistere al gelido clima invernale della pianura padana.
Ma il risultato non fu soddisfacente, tanto da dover rinunciare alla produzione. A Cattolica, invece, l’impresa è finalmente riuscita.
“È l’unica piantagione che esiste in Italia – racconta – nata nel 1987, quando collaboravo con l’orto botanico di Lucca, da lì presi i semi di una pianta che l’orto possedeva da anni, sopravvissuta a un inverno molto rigido, quello del 1985.
Mi piccai di fare una prova di acclimatazione, considerata folle all’epoca dai miei colleghi. E invece ha dato i suoi risultati.
Sono riuscito, da questo primo seme, a selezionare una linea che ho chiamato Sant’Andrea di Compito, idonea a resistere a temperature molto basse”.
La piantagione toscana, che conta circa 2.500 piante, si trova nell’Antica chiusa Borrini, in Lucchesia, a Sant’Andrea di Compito, nel comune di Capannori (Lucca), conosciuto, insieme al vicino Pieve, come il Borgo delle camelie.
Le caratteristiche acide di terra e abbondante acqua, perfette appunto per le camelie, hanno permesso a Cattolica di sviluppare un ecotipo in grado crescere e dare i suoi frutti: fino a 5 raccolti all’anno, iniziando dal primo di maggio, per un totale di 15-16 chili di tè annuali.
Dopo la raccolta, viene lavorato, in maniera differente a seconda della tipologia di tè da realizzare, e impacchettato, rigorosamente a mano. Pronto per essere preparato e degustato. Ma, ha un piccolo difetto, se così vogliamo definirlo.
Non è in commercio, non si può acquistare da nessuna parte, per averne una tazza bisogna recarsi all’Antica chiusa. Solo gli ospiti che chiedono di visitare la piantagione hanno il privilegio di assaggiare il tè.
“È un prodotto di ultra nicchia, vengono ad assaporarlo i curiosi, gli appassionati ma anche gli addetti ai lavori come i responsabili delle più importanti sale da tè d’Europa”, racconta Cattolica che, gelosissimo della sua creatura, ha rifiutato varie offerte, provenienti anche dalla Francia.
“Ultimamente, un famoso locale fiorentino mi ha proposto l’acquisto di tutta la piantagione, ma ho detto no. Per arrivare a questo risultato ho impiegato 30 anni, quindi ho deciso di non cederlo per diventare il lavorante di qualcun’altro”.
“La produzione del tè – spiega l’agronomo – dipende dal tipo di lavorazione che le foglie subiscono, con i primi raccolti si ottiene il tè bianco e quello verde, poi nelle raccolte successive a scadenze mensili, si lavora quello oolong e il nero.
Le foglie vengono messe in una fase di appassimento, distese su dei graticci in un locale quasi privo di luce. Quindi, si decide che tipologia di tè produrre: per quello bianco e verde si passa subito all’essicazione, mentre per l’oolong e il nero si procede con un’operazione intermedia che si chiama rollatura, innescando una sorta di ossidazione fino all’essiccazione finale”.
La qualità è considerata dagli esperti molto alta. Ma qual è il preferito dagli ospiti dell’Antica chiusa? “L’oolong, un semiossidato, che ha un sapore particolare: un gusto di moscato, tipicamente italiano per le caratteristiche del terreno, che ricorda il Darjeeling di Makaibari, famoso tè indiano”, rivela Cattolica. Una ragione in più per prenotare una visita e assaggiare una vera e propria rarità.
Maria Luisa Prete