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domenica 17 Novembre 2024
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Gianluigi Goi parla del fagiolo di montagna vestito di caffè, il Baracafé

Goi: "Di primo acchito accostare un fagiolo al caffè non è facile e intuitivo. Poi a pensarci un poco si fa strada la possibilità di abbinare il fagiolo (inteso come seme) al chicco (propriamente inteso) del caffè"

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Gianluigi Goi è un lettore nonché giornalista specialista di agricoltura affezionato a queste pagine che con la sua lunghissima esperienza e il suo punto di vista ha contribuito diverse volte proponendo contenuti sempre interessanti. Questa volta Goi parla del dimenticato fagiolo di montagna vestito di caffè in Val di Susa, il Baracafé. Leggiamo di seguito le sue considerazioni.

Il fagiolo di montagna vestito di caffè

di Gianluigi Goi

MILANO – Di primo acchito accostare un fagiolo al caffè non è facile e intuitivo. Poi a pensarci un poco si fa strada la possibilità di abbinare il fagiolo (inteso come seme) al chicco (propriamente inteso) del caffè.

Una riprova? E’ ancora oggi riscontrabile – vanta una tradizione secolare – in un piccolo borgo di montagna, Mattie, in Val di Susa, provincia di Torino. Borgo ameno e ricco di tradizioni che si nutrono anche dell’appartenenza ad un dialetto francoprovenzale, offre paesaggi naturali significativi e, storicamente, avvenimenti importanti a cavallo fra Francia e Italia purtroppo connotati anche dalla guerra di religione fra cattolici e valdesi.

Oggi conta 700 abitanti.  A Mattie (da san Matteo), come in gran parte dell’arco alpino, la coltivazione, anche domestica, dei fagioli ha, con le castagne, per secoli rappresentato per le popolazioni di montagna una fonte di sostentamento alimentare fondamentale: ricchi di proteine erano “la carne dei poveri”. A Mattie questo fagiolo, di sicura qualità, in italiano è denominato – anche ufficialmente – “Baracafé”.

I due semi Baracafé (foto: Associazione Ametegis – Mattie (TO))

Una denominazione di certo insolita e di non facile comprensione per chi non sia del luogo e, va pur detto, un poco sgradevole ad ascoltarsi tenuto conto del chiaro richiamo funebre. L’etimologia consente una chiave di lettura che va comunque inserita nel particolare contesto linguistico di una terra di confine e di una storia complicata.

Riguardo l’appellativo “Bàracafè” ci aiuta la competenza di Silvio Tonda – per discendenza famigliare “certificato originario” del luogo dal 1585, appassionato cultore di storia e tradizioni locali e fondatore dell’associazione culturale Ametegis: “l’etimologia è semplice e diretta come nella tradizione montanara. “Bàracafè” è il segmento (bàra nel dialetto francoprovenzale “Moda d’Matieus”: rimando a lingua gallo-romanza parlata a cavallo del confine franco-italo-svizzero n.d.r.) “del colore del caffè” ben apprezzabile sulla superficie dei semi. In italiano viene reso come “barra color caffè”; in realtà sui semi di questa particolare varietà le linee, spesso anche porzioni di archi, sono in numero anche di 2 o 3” e tali da conferire al seme un’eleganza piuttosto distintiva.

La schedina tecnica riportata nella presentazione del progetto “Rete per le Biodiversità Transfrontaliere – alla voce “Seme” del Baracafè specifica: “Tegumento (pellicina esterna n.d.r.) di colore variabile dal crema al marrone chiaro con screziature più o meno diffuse su tutto il tegumento e di colorazione marrone da cui il nome di Baracafè”.

Altre fonti evidenziano che “si tratta di un rampicante molto simile al fagiolo Borlotto, con la differenza che sia le striature più scure sia la parte più chiara del seme sono tendenti al marroncino – colore del caffè, appunto – invece che al rosso”. E, ancora, “per l’inconfondibile colore caffelatte dei suoi semi” questo fagiolo è molto apprezzato per il sapore caratteristico e la buccia molto sottile.

A questo proposito ancora oggi, come da tradizione, qualche raffinato si concede il lusso di consumare i teneri baccelli con i semi non ancora formati (intorno al 20 luglio quando la raccolta è ai primi di settembre) per sfiziose insalate crude.

La varietà Baracafé (Foto: Associazione Ametegis – Mattie (TO))

Alcune brevi annotazioni, dal grato sapore antico, evidenziano lo stretto rapporto che intercorreva fra la coltivazione di questo fagiolo – per inciso, una pianta molto alta, a volte anche più di tre metri – e i mattiesi, ripresa nel 2012 grazie alla tenacia conservatrice di una anziana signora e del Comune che distribuì una cinquantina di buste con altrettanti semi che hanno dato frutto: oggi il Baracafè sembra sul punto di poter essere considerato salvato anche perché i turisti-sciatori lo apprezzano.

E come si dice in questi casi: il detto “se mi mangi, mi salvi” è quanto mai vero. Cade quindi proprio “a fagiolo” la piccola annotazione che segue. In una ricetta della tradizionalissima “Menetra de Faeseul” (minestra di fagioli secchi), il soffritto è definito “povero” in quanto veniva utilizzata una sola foglia d’alloro (raro in montagna, e allora faceva freddo sul serio), ma in compenso prevedeva insieme burro fuso e lardo (o ventresca, la pancetta suina) e, per pasta, gli spaghetti rotti a pezzetti.

La “Feta di Feseul” (la Festa dei fagioli) con relative scorpacciate di questa prelibatezza color del caffè o del caffelatte cade nella terza domenica di settembre, al contempo festa patronale di Mattiè in onore dei santi Cornelio e Cipriano, ma, si legge fra le righe delle cronache, per il popolo era soprattutto l’occasione per festeggiare con il loro fagiolo con cui avevano dimestichezza.

La spontanea e inesauribile fantasia popolare ha quindi accostato i fagioli al caffè, riconoscendo al chicco di caffè il valore di prodotto prelibato da potersi sorbire solo in occasioni speciali, i Baracaffé, che tutti conoscevano e per così dire frequentavano quotidianamente”.

                                                                                                         Gianluigi Goi

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