TORINO – Abbiamo incontrato Giuseppe Trombetta, anima della Torrefazione Costadoro di Torino di cui per anni è stato Presidente e amministratore delegato. Un’azienda che può vantare un fatturato 2018 che ha sfiorato i 20 milioni di euro. E da lui abbiamo raccolto una testimonianza importante. Quella di un uomo che ha dedicato la vita al caffè in tutti i suoi aspetti.
Giuseppe Trombetta, classe 1934, 85 anni il 20 maggio, è da sempre uno dei vertici di Costadoro di cui oggi è Consigliere di amministrazione. Si occupa di caffè dal principio, proprio come se fosse nato all’interno di una torrefazione. Dalla frequentazione quotidiana alla professione il passo è stato breve.
“Ho cominciato a occuparmi di caffè – spiega oggi Giuseppe Trombetta – perché i miei genitori possedevano un bar torrefazione a Torino. La torrefazione Fratelli Trombetta, in Via XX Settembre 45, proprio dietro Piazza San Carlo”.
Poi la svolta. La famiglia affida alla mamma la parte delle vendite al dettaglio. Mentre padre e zio si dedicano alla rivendita del caffè tostato agli esercizi pubblici. Questa scelta porta alla nascita di una rivendita all’ingrosso.
“È naturale che, essendo in una famiglia così impegnata sul fronte del caffè, mi sia indirizzato verso lo stesso settore. Ho vissuto una breve esperienza in banca, volutamente, per apprendere i segreti di finanza e contabilità. Ma sempre con il fine ultimo di mettere queste conoscenze al servizio del mio ingresso in azienda.”
“A metà anni ’70 è avvenuto il grande cambiamento. Sì perché abbiamo scelto comunque un altro nome, frutto di due incontri. Il primo con la famiglia Beccuti. All’epoca erano i titolari della torrefazione Costadoro a Torino. Anche questo era un piccolo negozio in via Pietro Micca. Che poteva vantare una modesta attività di rivendita ai bar.
Poi è stata la volta di Duccio Abbo titolare di un’altra torrefazione a Pinerolo. Insieme abbiamo avuto l’idea di unire le tre aziende: Fratelli Trombetta, Caffè Abbo e Costadoro. La scelta per il marchio cadde sul brand Costadoro perché lo ritenemmo il più adatto al prodotto caffè.”
Il caffè che cosa è per lei?
“È qualcosa di peculiare. Ho sempre avuto familiarità con il bancone della torrefazione. Non è stato un salto improvviso. Il caffè l’ho digerito, l’ho conosciuto, quotidianamente. Mi sono sempre occupato di caffè. A parte i due anni di università, economia e commercio e l’intermezzo in banca, le mie conoscenze nascono e finiscono tutte nell’azienda di famiglia.
Un’esperienza unica. Perché c’è stato un periodo in cui la vendita del caffè non avveniva secondo le dinamiche attuali. Oggi, al 90%, la distribuzione avviene tra supermercati e online. Una volta esistevano invece delle piccole unità commerciali alle quali vendevamo il caffè tostato.
Anche rifornire i bar era una cosa diversa. Perché a quel tempo l’espresso veniva ancora preparato con delle macchine cilindriche verticali. La crema non esisteva.
Solo nel 1961 la Faema E61 ha brevettato un metodo per cui l’acqua veniva mandata in pressione da una pompa e di conseguenza produceva la crema. Prima il caffè era più liquido. La mia preferenza? Resta per quello della moka. E a casa, mi ricordo che si cuoceva direttamente nel pentolino.”
Sul suo tavolo ci sono delle bacche di caffè
“Sono le mie bacche. Le ho messe in un piccolo vaso e hanno fatto nascere una piantina che adesso ha circa 7 anni. Ogni volta che arriva qualche crudista, io dico: «Tra poco saremo autosufficienti» -. Scherza Trombetta.” Che però veramente, di fianco al suo tavolo di lavoro, ha una pianta di caffè con fiori e ciliegie. In piena produzione.
La qualità, che cosa è per lei?
“Un modo di distinguere il prodotto al fine di farlo apprezzare dal consumatore. Il quale dev’essere soddisfatto. Di conseguenza, è necessario fare attenzione al palato, in modo che non venga influenzato da dei gusti che non sono al top. E invece lasciare impresso a chi lo beve il ricordo di un caffè buono.”
Nel 2019, Costadoro ha compiuto 129 anni. Come è cambiato in questo arco di tempo il mondo del caffè?
“Per quanto riguarda gli approvvigionamenti, oggi esiste una costante possibilità di raccogliere informazioni. E quindi è stato un grande passo avanti, soprattutto per gli esportatori e poi per i produttori che si rivolgono a grosse società che fanno da intermediari con il cliente. Una volta non era così: fino agli anni ’60, chi produceva il caffè, inviava dei telegrammi con le quotazioni. E tutto si muoveva in questo modo, con uno scambio entro le 24 o le 48 ore. Ciò avveniva direttamente tra l’esportatore di origine e il torrefattore italiano, quando però si trattava delle grandi aziende.
Per le piccole torrefazioni, interveniva un crudista che acquistava il caffè e poi lo rivendeva per suo conto. Oppure, attraverso un rappresentante che si occupava di smistare tutte le informazioni.
Noi, avendo dimensioni rilevanti, avevamo un rapporto quasi diretto. Oggi con la facilitazione nelle comunicazioni, è più semplice avere degli scambi con la fonte. Ma una volta il produttore era davvero lontano e difficile da raggiungere.”
Qualche aspetto curioso della storia Costadoro.
“L’azienda è nata come bar. I titolari provenivano dal Monferrato e per questo erano più orientati sul vino come il Barbera. Quando poi è nata la tendenza di consumo del caffè, la stessa impresa ha abbandonato la prima bevanda a favore del caffè crudo. Sia per quanto riguarda la vendita alla clientela diretta, sia verso i pubblici esercizi. È avvenuto un vero e proprio sorpasso del caffè sul vino.”
La corsa tra vino e caffè è sempre molto sentita.
“Da otto anni a questa parte, con specialty e monorigini, è arrivato un modo di nobilitare il caffè per concorrere ancora una volta con il vino. Ma la mentalità, l’approccio di consumo è diversa per le due bevande: uno va consumato al bancone in due minuti, l’altro invece lo si degusta al tavolo.”
Oggi si beve un caffè migliore o peggiore di un tempo?
“È un discorso molto soggettivo. Posso dire che una volta c’erano probabilmente pochissimi caffè ottimi e poi quelli abbastanza cattivi. Oggi, secondo me, con l’arrivo di prodotti chimici come i fito-farmaci che influiscono sui modi di lavorazione, c’è stata una tendenza a eliminare i pessimi caffè, riducendoli.
Allo stesso tempo però, c’è stato un leggero abbassamento della qualità. E la creazione di una fascia intermedia più ampia.
Di recente si parla di caffè speciali e monorigine, nel tentativo di uscire dalla mediocrità qualitativa. Ma si tratta pur sempre di quantitativi ridotti. Sì, oggi si può bere un caffè migliore di una volta, ma bisogna cercarlo.”
Il disciplinare dell’espresso preparato dal Comitato italiano del caffè con Inei e Gruppo Italiano torrefatori?
“Credo che sarà molto difficile portare a termine questo tentativo di fornire indicazioni precise per definire un espresso. Perché in giro ci sono tanti “espressi” che non lo sono. Complice anche il barista che ne trascura la preparazione.
Tutto ciò che è necessario per caratterizzare un caffè che sia davvero espresso, per me, è ben accetto. Nonostante dubiti che la definizione possa essere realizzata e in tempi brevi.”
In Piazza Cordusio a Milano è approdata la Reserve Roastery di Starbucks.
“Ho due pensieri: uno, che come tutte le piante, proietta ombra. Starbucks lo farà soprattutto da un punto di vista territoriale, oscurando i bar tradizionali che lo circondano. Dall’altra però penso che comunque, questo arrivo che sgancia il caffè dal prezzo di un euro, sia una novità molto utile. Con il fatto che da un punto di vista economico e d’immagine, parliamo di grandi numeri, se può essere un danno per gli esercizi circostanti, può anche diventare un grande traino per nobilitare il prodotto espresso. “
Starbucks vende l’espresso, seduti o in piedi, a un euro e ottanta. Mentre nei locali attorno, per il servizio al tavolo, si trovano listini anche molto più elevati.
“È una giusta impostazione. Non so però se la Roastery stia avendo successo rispetto alla vendita del caffè in grani. Ma le aziende come Starbucks hanno una mentalità diversa dalla mia: possono rimetterci per anni, se sono convinti del progetto a lungo termine.”
Il prezzo bloccato dell’espresso oggi bloccato può diventare un danno per il consumatore che beve una tazzina mediamente cattiva.
“È uno scoglio difficile da superare. Ma, fossi al posto dei baristi, non passerei da un euro all’euro e venti. Andrei direttamente all’euro e cinquanta. Perché fare un salto darebbe subito l’impressione di offrire qualcosa in più. Una bevanda speciale.”
Cialde o capsule? E il problema dell’inquinamento?
“Nessuna delle due. Ma dovendo proprio pronunciarmi istintivamente preferisco la cialda alla capsula. Inquinano? Non possiedo sufficienti conoscenze tecniche per affermare che le capsule siano fonte di contaminazione ambientale.”
Del caffè bio che cosa ci dice?
“Lo vendo. Si tratta di un caffè che cavalca la stessa onda che ha coinvolto tanti altri prodotti. Ci siamo accodati alla tendenza del biologico. Che non nuoce alla salute e risponde a una richiesta del consumatore.”
Cosa pensa della sostenibilità?
“Di sicuro è una buona cosa. Bisogna controllare però l’aspetto economico della questione, rispetto a chi produce in maniera sostenibile. Se cioè esistono delle possibilità concrete di guadagno. Sembra di dire qualcosa di sconveniente, ma nessuna azienda può fare a meno di ragionare in termini di profitto.
Quindi è naturale che il caffè biologico e sostenibile, se da una parte dà una buona immagine al brand, deve essere anche remunerativo per chi lo tosta e poi lo vende.”
I prezzi del verde sono ai minimi da vent’anni.
“Sì è arrivati a prezzi così bassi perché non c’è stato un aumento della domanda che fosse pari alla produzione. Questo fenomeno, eccezion fatta per la Colombia che tenta di stringere nuovi alleati e sganciarsi dal contratto C, porta a dei compromessi nel tentativo di rientrare nei costi.
Ciò è legato all’esodo dei coltivatori dai campi. Esiste poi un altro aspetto: il declassamento qualitativo. L’acquisto e l’uso dei prodotti chimici comporta più passaggi in fase di coltivazione. Con il prezzo basso tutto il sistema non è più remunerativo.
Così i trattamenti non vengono più fatti. Ciò ricade alla fine sul consumo. Perché il caffè coltivato in maniera approssimativa, arriva in tazzina non a livello ottimale. E questo può portare a un’involuzione dei consumi.”
Qualcuno dice che il caffè dovrebbe costare di più a prescindere dai prezzi delle Borse, per remunerare di più il costo della coltivazione.
“Sono d’accordo con il ragionamento. Tuttavia, ha un impatto nella realtà. Si tratta di un’idea, difficile da applicare.”
Lei si occupa di acquisto del verde. Com’è cambiato il commercio in questi anni?
“C’è stato un cambio soprattutto dal punto di vista delle comunicazioni. E si è passati dai telegrammi alle e-mail.”
Come sono cambiati la logistica e i criteri della gestione delle scorte di magazzino?
“Oggi in tutte le aziende esiste una maggior razionalizzazione e una maggior pulizia. Perché sono disponibili mezzi diversi rispetto al passato. Prima il caffè arrivava in sacchi, poi in bulk, ora nei container. Quando giunge qui, va riposto nei silos. Oggi i problemi di umidità e di polvere, sono stati ridotti. C’è ormai grande attenzione sia nella torrefazione sia nell’impacchettamento. Come nel sottovuoto che stabilizza il prodotto e che prima non esisteva.”
Quali sono le innovazioni tecniche cha hanno cambiato il modo di commercializzare il caffè?
“Oltre al sottovuoto, oggi c’è una progressiva riduzione dei venditori tradizionali, cioè i droghieri e dettaglianti a favore dei supermercati e della vendita online. Prevedo, tranne che per pochissimi locali che manterranno una fascia molto elevata di qualità, che cambieranno le modalità di acquisto.”
Quali sono le origini che una volta utilizzava e quali quelle che predilige oggi?
“All’80% le qualità che usavamo un tempo, sono le stesse che usiamo oggi. Come Costadoro abbiamo lasciato l’Haiti e l’Equador. Perché non davano molte garanzie di costanza e selezione del prodotto. Aggiungo che una volta forse alla macchina espresso si serviva un espresso più blando e queste due origini sposavano il gusto più forte e amaro. Che però non esiste più oggi, perché si preferiscono sapori più sweet.”
Come si è evoluto il rapporto tra i torrefattori e la parte di filiera a monte?
“Le cose sono cambiate. Però noi riceviamo periodicamente, ogni sei mesi circa, qualche incaricato dai paesi produttori. Abbiamo instaurato un rapporto sempre un po’ conflittuale in termini di contrattazione, ma è abitudine di lunga data. È comunque un dialogo diretto, che va avanti da anni.”
Il rapporto diretto con i paesi produttori tende a eliminare gli intermediari?
“Con i mezzi di comunicazione oggi a disposizione, l’origine non è più così lontana. E quindi l’intermediario non ha più lo stesso ruolo chiave di una volta quando davvero svolgeva una funzione imprescindibile.”
Il finanziamento ai baristi: uno degli aspetti controversi
“Il finanaziamento ai baristi è un’operazione che è nata pian piano e poi si è sviluppata. Ha la sua origine già negli anni ’60. Purtroppo ci sono state delle aziende che hanno iniziato a trovare clienti basando tutto sui finanziamenti. La qualità non era una priorità ed erano piuttosto indirizzati all’acquisizione dei bar.
Io credo che questa situazione, da un punto di vista etico, non dovrebbe esistere. Sono contrario. Tuttavia, devo ammettere che, da un punto di vista operativo, la totalità delle aziende ha una finanziaria. È un male che però è accettabile. Se ha delle dimensioni che non stravolgano il commercio.”
Le monorigini, tanto di moda.
“Il torrefattore dovrebbe porsi come primo obiettivo la capacità di creare uno o due blend al massimo. Questo è l’aspetto principale. Ciò non toglie però che, se esistono possibilità per andare incontro alle preferenze, per esempio verso un Nicaragua, allora anche il torrefattore deve adeguarsi.
Gli specialty e le monorigini?
Se un caffè che arriva dalle Hawaii ha un costo duplicato rispetto a un brasiliano, è giusto che questo si rifletta sul prezzo della tazzina. Io sono abituato a consumare, sin dall’inizio, i monorigine. Nel mercato italiano dubito però che gli specialty possano prendere piede al punto da avere delle quantità rilevanti.”
Lei come distingue un caffè buono da uno cattivo?
“Un caffè buono deve avere un buon corpo, un grado di acidità medio. Poi, deve presentare un buon riscontro olfattivo. Senza l’amaro intenso che soprattutto rimane poi a livello di retrogusto.”
La scuola di caffetteria di Costadoro, è un investimento importante,
“Ha un duplice aspetto. Noi lavoriamo molto sulla qualità. Più il nostro cliente è in grado di valutare il caffè, più questo va a nostro vantaggio. In secondo luogo, questa scuola è un modo per fidelizzare il consumatore. Intensificando il rapporto tra torrefattore e utente finale. È giusto instaurare un dialogo di trasparenza e collaborazione tra queste due figure. La scuola serve anche a questo.”
Che rapporto ha Costadoro con il vending?
“Con il Vending abbiamo un rapporto che non supera il 3% del fatturato totale. Questo perché è un settore che, all’80%, si basa sul prezzo. E purtroppo su questo, noi finiamo sconfitti. In quanto lavorando con qualità elevate, andiamo in perdita. Inoltre, io sono un po’ tradizionalista. Mi sembra di fare uno sgarbo al barista. Perché è inevitabile che se il consumo si sposta alle macchinette, viene tolto all’operatore.”
C’è un giro vorticoso di bar che aprono e che chiudono.
“Non vedo bene questo fenomeno. Perché rappresenta un sintomo di insoddisfazione di chi apre. Nel senso che, magari, si aspettava un certo guadagno ma poi non ce l’ha fatta. E allora spera di vendere l’attività e andare a comprare qualcosa di migliore.”
Costadoro ha il suo bar a Torino, il Diamante.
“Innanzitutto per una questione di immagine. A Torino, oltre il 30% dei bar usano caffè Costadoro. Poi, quando dobbiamo accogliere dei clienti dall’estero, li portiamo in questo locale.
Ce ne saranno altri in Italia?
Ci potrebbero essere. Ma non nella stessa formula diretta, piuttosto in franchising. Sempre mantenendo l’immagine Costadoro.”