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venerdì 22 Novembre 2024
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Gianpaolo Grossi: “Qui hai bisogno di tutti”, il dice general manager della roastery di Starbucks

Il calcio applicato all’azienda, lavorare all’estero, la motivazione sul lavoro: parla Giampaolo Grossi, general manager della roastery Starbucks di Milano

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MILANO – Sul sito Luz, specializzzato in interviste impossibili è apparsa una bella conversazione con Gianpaolo Grossi, l’inavvicinabile general manager delle reserve roastery Starbucks di Milano. Impossibile omettere dalla rassegna stampa questa chicca firmata da Gabriele Ferraresi. Che nell’intervista da del tu all’interlocutore.

di Gabriele Ferraresi

Giampaolo Grossi, classe 1979, toscano, è il signor Starbucks a Milano. General manager della roastery di piazza Cordusio che ha fatto impazzire turisti e milanesi – e infastidito Aldo Cazzullo (opinionista del Corriere della Sera; n.d.r.) – nonché uno dei simboli della nuova Milano aperta al mondo e che attrae l’estero.

Lui all’estero ci ha vissuto e lavorato: facendo esperienza dagli Stati Uniti al Kuwait per poi tornare al momento giusto con un’offerta di quelle che capitano una volta nella vita.

Piuttosto riservato, di Grossi ci sono pochissime interviste in giro e molti post (suoi) su LinkedIn, stracommentati e condivisi. Top manager anomalo e umanista, poca università e moltissima gavetta nella ristorazione in giro per il mondo, non ha orari e prende le cose con filosofia.

Urban legend sul suo conto: è un ex calciatore professionista.

Giampaolo Grossi: come va Starbucks a Milano?

L’altro giorno in roastery parlavo con una coppia sui settant’anni, dicevano: “Però il caffè è buono”.

Come “però”?

Ovviamente ringrazio e gli chiedo di dove siano: “Milano centro… guardi, non pensavamo, ma il caffè è buonissimo, poi l’accoglienza mi piace tanto”. Quando ti dicono così è fatta: sono persone a cui magari il concetto della roastery non interessa, però sentirti dire “Grazie, m’è piaciuto tanto” da una persona di settant’anni, lontana dal nostro cliente medio, fa veramente felici.

Più clienti milanesi o più turisti?

Cinquanta e cinquanta, da Seattle pensavano che non avrei mai avuto i locals e invece siamo pieni di milanesi.

A seconda delle fasce orarie abbiamo clienti che vengono tutti i giorni, magari durante la mattina e in momenti più tranquilli e non nel weekend, quando facciamo tantissimi ingressi. In ogni caso quando sento il barista che saluta per nome i clienti mi giro e penso: “Ok, bene così”.

Bilancio positivo?

Sì. Nei primi otto mesi abbiamo superato il milione di clienti. La settimana del Salone del Mobile abbiamo avuto visite da tutto il mondo, con il picco massimo sabato dove abbiamo raggiunto record di incassi, record di transazioni, e non c’è stato un problema. È appagante, ma cerco sempre di guardare oltre e ripartire da zero la mattina seguente.

Prima di parlare meglio del tuo lavoro, volevo fare qualche passo indietro. È vero che sei un ex calciatore?

Sì, ho iniziato a giocare a sei anni, quando è morta mia madre. Il calcio è entrato nella mia vita perché mio padre non sapeva come gestirmi, e di lì in poi però è diventata una passione e anche un lavoro, ho giocato fino ai 29 anni. In C1 ho fatto delle presenze, poche, ma qualcosa ho fatto, poi tanta Serie D. Per me però il calcio è stato soprattutto una scuola impressionante.

Ti è tornato utile anche dopo?

Il calcio mi ha dato la possibilità di imparare a stare con gli altri. La capacità di adattarmi a ogni situazione, a ogni spogliatoio, anche nel mondo del lavoro.

Ti manca qualcosa del calcio?

Il senso di unione che riesci a instaurare sul campo è difficile da trovare altrove, perché entrano in gioco insieme il fattore umano e quello fisico.

Ti trovi in situazioni in cui riesci a fare cose impossibili, che non pensavi avresti mai fatto. Però non mi manca tanto il calcio in sé, ma lo spogliatoio, la battaglia insieme in cui vinci o perdi, le litigate in campo… quello mi manca in una maniera pazzesca. Cerco di ricrearlo sul lavoro.

Parliamo di lavoro: tu hai iniziato nei locali notturni in Versilia

Gli inizi: fatto un corso da barman ho iniziato a raccogliere i bicchieri, lavarli, pulire quello che c’era da pulire, inclusi i gabinetti. Poi pian piano ho fatto il primo Cuba Libre, il primo Mojito. Da lì è partita la mia carriera di barman.

In che anni eravamo?

Intorno al 2006. Avevo capito che Ronaldo non lo sarei mai diventato, Messi neanche, dovevo decidermi.

Com’è andata?

Un anno abbiamo tirato su un locale e per otto mesi non ho preso uno stipendio, non guadagnavo niente, ci sono stati dei momenti in cui mangiavo la pasta in bianco. Finché non mi ha contattato il Beach Club, un locale famosissimo in Versilia. Lì le cose hanno cominciato a girare bene, ero molto richiesto.

Che cosa hai imparato in quella fase della tua vita?

A non mollare mai. Perché quando cresci in un ambiente del genere, nel mondo della notte, è facilissimo adagiarsi: avevo avuto la fortuna di trovare un ambiente di lavoro che mi dava un ottimo riscontro economico, però c’era qualcosa che non mi bastava. È stata la molla che mi ha fatto partire per New York.

Primo impatto con l’altro lato dell’oceano?

I primi due mesi sono stati i più duri della mia vita: non conoscevo nessuno, parlavo un inglese maccheronico, vivevo nel New Jersey, mi presentavo chiedendo lavoro e non capivo neanche quello che mi chiedevano.

Quanti colloqui prima di trovare lavoro?

Almeno quaranta.

Rimbalzato sempre?

Rimbalzato sempre, e nonostante vedessi lavorare persone rispetto a cui avevo molte più capacità. Avevo studiato la cultura e la tradizione di quello che era il bartender, e vedevo delle cose che non concepivo: la differenza è che non riuscivo a comunicarle e non capivo che cosa il popolo americano volesse.

Momenti difficili di quel periodo?

Avevo trovato un locale dove imparare il lavoro, per tornare a casa l’ultimo tram partiva all’una, quello dopo alle quattro del mattino. Il locale chiudeva alle due. Tutte le notti aspettavo le quattro per tornare a casa. Mi addormentavo al telefono con mia sorella, ho ancora le foto.

Poi sei passato da Bice, uno storico ristorante italiano sempre a New York

A un certo punto lavoravo lì sette giorni su sette. In settimana affiancavo il manager del ristorante, venerdì sabato e domenica lavoravo da barman. Avevo dovuto comprarmi il completo, la cravatta, non avevo niente. Vado avanti sette su sette e dopo due mesi arriva la sera in cui il manager mi dà le chiavi del ristorante: “Oggi chiudi te”. E mi lascia con dei camerieri che avevano sessant’anni, che lavoravano da Bice da una vita. Io ero un ragazzino, ma mi ero fatto voler bene mi trattarono tutti come un figlio. Lì è iniziato il mio percorso da manager di sala.

Dopo New York, il Kuwait: altro angolo del mondo, sempre ristorazione

Nel 2013: cinque mesi in Kuwait a seguire l’apertura di un ristorante sul mare.

Com’è stato lavorare in quella parte del mondo?

Col kuwaitiano quasi non parli, in squadra avevo filippini e indiani, due culture totalmente diverse. I cinque mesi lì sono stati un’esperienza incredibile, c’erano 52° al sole, ti si bruciavano le scarpe se stavi fermo sull’asfalto. Da lì poi sono tornato ancora negli Stati Uniti, a Naples, in Florida, sempre per la stessa azienda.

Il mondo del lavoro negli Stati Uniti rispetto all’Italia?

È più facile trovarlo il lavoro, ma anche molto difficile tenerlo. Ti parlo del mondo food and beverage, non so in altri settori, ma l’America è un mondo molto più veloce dove all’apparenza sembra tutto più facile, rapido, velocissimo: talvolta lo è.

Però…

Però una città come New York – o meglio ancora, Manhattan – sa anche essere molto cattiva. Se ti lasci trasportare dall’energia che c’è, Manhattan ti ammazza, se non hai la capacità e l’intelligenza di gestirti ti fai del male.

C’è tutto, quasi troppo?

Sì, hai il mondo a portata di mano, se stai a casa una sera ti senti inutile, senti di sprecare del tempo.

Qual è la cosa migliore che ti sei portato a casa dopo avere lavorato in tutto il mondo?
Interpretare l’internazionalità: se inizi a vedere le cose da punti di vista diversi riesci a vedere sfumature che altri non colgono. È fondamentale, soprattutto se sei l’esercente di un locale, un bar, un ristorante, quel che vuoi: intorno a te girano milioni di persone e tu devi riuscire ad avere milioni di punti di vista diversi.

È quella la cosa più importante?

Sono sempre più convinto che la capacità di un grande manager sia quella di mettersi “nelle scarpe” del cliente, vedere le cose come le vede lui. Non è solo una questione di transazione economica, anche solo un “Buongiorno” al momento giusto vale, è una social transaction, una transazione tra esseri umani.

Che già di questi tempi…
È parecchio significativa.

Stiamo sul tuo percorso professionale: dopo la Florida, torni in Italia per Prada

Ero ad Harlem, pieno agosto. Suona il telefono: “Pronto? Siamo Prada”. “Che c’entro?”. “Guardi, abbiamo visto il suo profilo su LinkedIn”

Abbiamo una notizia: sei il primo che conosco che ha trovato lavoro su LinkedIn

Non ci credevo neanche io; mi spiegarono di Marchesi e del progetto della Pasticceria a Milano e accettai.

Da come racconti il passato sembra tutto semplice, immagino non lo sia stato. Quali sono stati gli aspetti più difficili da gestire in questi continui cambiamenti?

Sì, a raccontarlo sembra facile ma non lo è stato. Anche perché io sguazzo nel cambiamento dal punto di vista professionale, ma molto meno dal punto di vista affettivo.

La parte difficile da chiudere sono le relazioni umane?

Sì, mi innamoro delle persone. Sono proprio rapporti sentimentali, e negli ultimi due anni l’ho capito ancora meglio grazie anche a Starbucks e le persone vicine a me. Soffro soprattutto i distacchi per questo oggi cerco di concentrarmi di più su me stesso per essere di miglior supporto verso gli altri, cerco di essere da esempio ogni giorno.

La roastery di Starbucks Milano esiste da un anno: cosa hai imparato?

Ho imparato sempre di più che da solo non puoi fare niente, che da solo non ce la fai. Hai bisogno di tutti.

Come quando giocavi a calcio?
Sto imparando quanto sia meglio mandare in gol gli altri, piuttosto che segnare tu. Da bambino volevo fare il capocannoniere perché il mio babbo esultasse in tribuna, mentre oggi mi rendo conto che se fossi padre sarei più felice se mio figlio la mettesse sui piedi del compagno per mandarlo in gol.

Hai detto che le aziende crescono solo se le persone crescono: come si fa a farle crescere?

Credo che le cose più importanti che un’azienda deve mantenere siano la lealtà, la trasparenza, e il senso di servant leadership. Come ho detto più volte è finito il tempo di “Io sono il boss e tu sei dipendente” anche perché tanto non funziona. Secondo me i CEO (gli amministratori delegati; n.d.r.) delle aziende devono imparare a mettersi nei panni delle persone che portano avanti l’azienda.

È quello che dicevi prima sui clienti

Le aziende da chi sono fatte? Da persone. Alla fine noi spendiamo l’80% del nostro tempo a lavorare – chi ha la fortuna di averlo, il lavoro – se questo 80% di tempo tu riesci a plasmarlo in un qualcosa di passionale, a quel punto non è più lavoro, diventa parte della tua vita, di te stesso.

Forse non è così facile per tutti: per chi fonde bulloni tutto il giorno la cosa è un po’ diversa

Sono d’accordo con te sul fatto che sì, chi fonde i bulloni tutti i giorni è in una situazione diversa: però chi fonde i bulloni tutti i giorni ha la possibilità magari di mettersi in proprio, aprire un’attività, creare un esercizio, fare una squadra.

In fondo ciascuno di noi rappresenta un piccolo “ingranaggio” di una macchina più grande dove il contributo di ogni singola persona è fondamentale per l’obiettivo finale.

Mi sento fortunato per il ruolo che ricopro ma prendo a cuore ogni persona e tutte le relative responsabilità.

Immagino la risposta, ma ti chiedo: che orari fa il signor Starbucks Milano?

Quando i miei amici mi chiedono “Che orari fai?” mi metto a ridere.

Orario: sempre

Al di là di essere dirigente dell’azienda e del ruolo che ho, di cui sono onorato, non ho orari.

Mai un momento tranquillo?

Per me è più stressato un artigiano che lavora da solo, che se non entra gente non sa come pagare l’affitto. Chi è che ha più stress? Forse lui, non io: io certo che ce l’ho lo stress, e va bene, ma ho anche un colosso mondiale alle spalle che ci dà sempre supporto. Un’altra cosa che mi fa sempre sorridere è quando mi chiedono: “Ma quando stai a casa?”.

Come motivi chi lavora con te?

Sforzo, tanto sforzo. Presenza sul campo, perché tu devi essere a fianco delle persone che portano avanti il lavoro. Sennò perché dovrebbero lavorare per te, per lo stipendio?

È solo una delle leve dici?

Non ti dico che devi essere il primo a entrare e l’ultimo a uscire, però siamo lì. E soprattutto devi assumere un senso di responsabilità e integrità nei confronti della vita delle persone. Le persone alla fine ti stanno accanto soprattutto perché credono in quello in cui tu credi.

Che cosa hanno in comune le persone che hai scelto per lavorare da Starbucks?

L’attitudine al senso di accoglienza, di ospitalità, di benvenuto. Tutti noi – anche chi non lavora nella ristorazione – viviamo momenti di accoglienza nella nostra giornata. Esempio: tu mi inviti stasera a cena, credo che quando suonerò il campanello tu o chi per te mi aspetterà sulla porta all’ingresso. Perché se arrivo davanti alla porta e non c’è nessuno, questa non è accoglienza.

E direi

Mia nonna mi sgridava sempre per questo: io invitavo gli amici ma poi non ero davanti alla porta. Erano i miei migliori amici, li vedevo tutti i giorni, però lei mi diceva “Quando arriva un ospite devi stare sulla porta, dare il benvenuto, prendere il cappotto, appoggiarlo, e offrire un caffè”. Mia nonna se non mettevi il caffè con il servizio buono ti faceva una testa che ti ammazzava.

Quanto conta oggi l’accoglienza per te?

Credo che l’accoglienza sia la chiave per dare un’esperienza positiva alle persone: poi ti può piacere o non piacere Starbucks, ti può non piacere il caffè, possiamo sbagliare un cocktail o un ordine, può succedere, ci mancherebbe. Ma se tu dai accoglienza a una persona e questa persona si sente benvenuta, questo crea una positività da parte del cliente che anche se ti dovessi sbagliare, lui potrebbe non accorgersene oppure far finta di non vedere e noi saremo pronti a correggere ogni errore.

Cosa non sopporti nelle persone che lavorano con te?

Chi non si emoziona mi fa paura. Quando una persona non si emoziona non riesci mai a capire chi è: e le emozioni possono essere positive o negative, anche lo stress è una forma di emozione, stancante, ma è un’emozione. Inoltre non sopporto l’uomo col calzino bianco, magari di spugna.

Chi lavora con te in piazza Cordusio oggi?

Nella squadra ci sono tantissimi ragazzi meravigliosi e altri che purtroppo continuano a vedere il bicchiere mezzo vuoto e perdono di vista quanto di bello costruito o da costruire insieme. Io cerco di dare la possibilità a tutti di crescere insieme: poi è chiaro che ci sono delle gerarchie, dei ruoli e delle regole, un ecosistema ne ha bisogno.

Come si cambia quella mentalità?

Serve partecipazione, servono esperienze da fare insieme. Io posso passare ore a parlare con il millennial di turno che vede tutto nero, ma non mi ascolterà mai. Serve l’esperienza fisica. Se loro sentono questa cosa, la vivono e provano paura ed emozione con te, a quel punto tu diventi il loro leader. Devi riuscire a profondere meglio i tuoi obiettivi, che devono diventare i loro. Devi offrire una condivisione maggiore, perché hai bisogno di tutti.

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