Gianluigi Goi è un lettore nonché giornalista specialista di agricoltura affezionato a queste pagine che con la sua lunghissima esperienza e il suo punto di vista ha contribuito diverse volte proponendo contenuti sempre interessanti. Questa volta Goi racconta della sua visita alla mostra “I Macchiaioli” in corso a Brescia (fino al 9 giugno) a Palazzo Martinengo.
In particolare, Goi si sofferma sul quadro “Il Caffè Michelangiolo di Firenze” (1861 circa) del livornese Adriano Cecioni che costituisce il vero e proprio atto di nascita del movimento dei Macchiaioli.
Il quadro si rivela una perfetta unione tra caffè e arte, binomio che ha da sempre occupato uno spazio di rilievo nella nostra cultura. Leggiamo di seguito l’approfondimento di Goi.
La mostra d’arte “I Macchiaioli” e “Il Caffè Michelangiolo di Firenze”
di GIANLUIGI GOI
BRESCIA – Solitario per posizione e un poco scontroso per così dire di nascita, scuro di suo anche nella cornice, doverosamente occupa il primo posto nella successione dei quadri.
L’oscurità della saletta non aiuta occhi banalmente anziani a vedere i contorni caricaturali di un acquerello di 53,5 cm di altezza x 82 di larghezza, inusualmente esposto al pubblico – è parte di una collezione privata milanese – del quadro “Il Caffè Michelangiolo di Firenze” (1861 ca) del livornese Adriano Cecioni in occasione della mostra “I Macchiaioli” in corso a Brescia (fino al 9 giugno) a Palazzo Martinengo.
Un quadro tanto scontroso quanto importante: costituisce infatti il vero e proprio atto di nascita del movimento dei Macchiaioli, ancorchè senza gli svolazzi della firma del notaio autenticante e/o la ridondante pallosità del latinorum giuridico, a cui la critica unanime riconosce importanza assoluta nella storia dell’arte italiana.
Per tornare alla mostra, curata da Francesca Dini e Davide Dotti, vive della presenza e della filologica attenzione di oltre 100 opere molte delle quali provenienti da collezioni private (e come tali di non facile accessibilità) e da istituzioni culturali quali gli Uffizi di Firenze, il Museo della Scienza e della Tecnologia Leonardo da Vinci di Milano, i Musei Civici di Udine, l’Istituto Matteucci di Viareggio e la Fondazione CR Firenze. Suggestioni culturali e rimandi ad ampio raggio sul significato e il valore della mostra le dobbiamo alle considerazioni della storica dell’arte Barbara D’Attoma.
Il nostro Adriano Cecioni (1836-1886), pittore tradizionale ma anche caricaturista (il suo satirico “Caffè Michelangiolo” graffia non poco) e scultore. Una schedina illustrativa del quadro spiega che “l’interno del locale è caratterizzato da colori caldi, marroni e ocra.
I clienti si distinguono per abiti molto scuri. Una tappezzeria di colore verde decora le pareti mentre il pavimento giallastro è fortemente illuminato dalla luce artificiale”. Alle pareti sono raffigurati molti quadri a testimoniare la nutrita presenza di pittori fra gli avventori del caffè. Di agiata famiglia proprietaria di una locanda, Cecioni frequentò l’Accademia di Belle Arti di Firenze. Collaborò con artisti del calibro di Telemaco Signorini, Vincenzo Cabianca e Cristiano Banti.
Il Michelangiolo si affacciava, per sfidarla e forse irriderla, nell’allora via Larga, nei pressi dell’Accademia delle Belle Arti e di piazza Duomo.
Ebbe vita fino al 1861. Una targa apposta dagli intellettuali della storica trattoria “Giubbe Rosse” (culla del concorso letterario “Antico Fattore” oggi meritoriamente in capo all’Accademia dei Georgofili che l’ha salvato dall’estinzione) solitaria ne ricorda i brevi fasti.
Aperto nel 1848 in pieno fervore risorgimentale il “Michelangiolo” fu “il ritrovo dei capi ameni, degli eccentrici, dei matti insomma dove le burla di tutti i generi sono all’ordine del giorno insieme agli stornelli popolari della campagne Toscane cantati con mirabile armonia”. Con il tempo al periodo bohémien e goliardico degli inizi subentrò il metodo, “altrettanto informale”, del cenacolo. Sempre importanti e vivide le identità patriottiche e risorgimentali.
Da “etno-caffeinomane” convintamente recidivo – per dirla con Flaiano si tratta di una malattia, la “etno-caffeomania”, forse poco diffusa, probabilmente grave, ma non seria – mi permetto di evidenziare a quanti con il caffè inteso come luogo di incontro e di lavoro lo vivono nella quotidianità, di prestare grande attenzione al ruolo sociale che assolvono e sono chiamati ad assolvere.
All’epopea del Caffè Michelangiolo – oggi i suoi vecchi spazi ospitano il Museo Leonardo da Vinci Firenze, particolarmente ricco di installazioni multimediali – che fu l’autentico brodo di coltura dei Macchiaioli, artisti innovatori e progressisti che basavano “il loro stile sull’uso di macchie di colore e una tecnica rapida”, sono dedicati due libri molto appropriati e particolari: l’iconico “Caricaturisti e caricaturati al Caffè Michelangiolo (1846-1866) – Ricordi di Telemaco Signorini “ e “Caffè Michelangiolo” (1944, Firenze, Vallecchi editore) di Pietro Bargellini, storico sindaco fiorentino e inesauribile cantore delle meraviglie della Città del Giglio.
Solo un cenno, infine, alla Rivista Caffè Michelangelo che trattò i temi storici, politici ed artistici cari ai suoi frequentatori.
A prescindere dalle giravolte caffeicole dello scrivente, la mostra è una vera e propria goduria: capolavori quali, ma molti altri quadri meriterebbero una citazione approfondita e competente:
“La scaccia delle anitre” di Angelo Tommasi, per me semplicemente indimenticabile; “Le cucitrici di camicie rosse” di Odoardo Borrani; “Raccolta del fieno in Maremma” di Giovanni Fattori; “I fidanzati” di Silvestro Lega; “Pascoli a Castiglioncello” di Telemaco Signorini hanno vivificato e impreziosito gli occhi più del dovuto collirio quotidiano”.
Gianluigi Goi