MILANO – Gianfranco Diretto è ricercatore del Laboratorio Biotecnologie dell’Enea e responsabile del progetto Cometa sul naso elettronico high tech svolto in partnership con Danesi Caffè (coordinatore di Cometa), il Campus Bio-Medico, il CREA e l’azienda Genechron. Ha partecipato recentemente con un intervento sull’aspetto molecolare del caffè di qualità, al workshop di presentazione del Master Caffè aRoma Tre. È stata questa l’occasione per accennare ad uno studio condotto con l’Accademia del caffè
espresso La Marzocco, e l’Università degli studi di Firenze, con focus sugli specialty provenienti da 13 Paesi produttori: lo abbiamo approfondito assieme.
Diretto, qual è lo scopo dello studio, scoprire cosa rende gli specialty, molecolarmente “speciali”?
“Questo è un progetto partito da una collaborazione tra Enea, l’Accademia del caffè espresso e l’Università di Firenze cominciata nel 2020. Tra questi enti ci siamo divisi il lavoro: l’Accademia reperisce i materiali, li tosta ed esegue dei test sensoriali. Enea e l’Università di Firenze si occupano della caratterizzazione chimica: determiniamo tutte le molecole contenute nei caffè esaminati che possono contribuire al gusto e all’aroma perché le molecole del gusto rispetto a quelle dell’aroma, hanno bisogno dell’uso di diverse tecnologie per esser analizzate.
Esiste poi una fase di integrazione di tutti i dati raccolti per elaborare le informazioni conclusive. Lo scopo dello studio è quello di arrivare a un’impronta molecolare di ogni caffè, sia a livello generico che chimico, che ci permetta di caratterizzare e di riconoscere ciascun caffè analizzato per ottenere una sorta di carta di identità individuale, che da una parte possa essere una buona base sulla quale condurre altri studi e che, dall’altra sia utile per il consumatore, nel conoscere meglio che cosa consuma.
Una delle finalità dunque è quella di arrivare in prospettiva ad una maggiore consapevolezza e definizione della qualità del caffè che beviamo. Con il vino ci sono voluti vent’anni. Oggi non è più tollerabile il non sapere cosa si beve.”
Perché proprio con gli specialty e perché i monorigine?
Spiega Diretto: “Quando ci si ritrova a lavorare con gli specialty si ha il vantaggio iniziale non da poco, di osservare i migliori caffè al mondo. In più, studiare i monorigine, semplifica il lavoro di analisi: se ne conosce già l’origine, e questo ci permette di eseguire una caratterizzazione più esatta, a differenza di quello che succederebbe in blend composti da diverse varietà in differenti proporzioni.
Dal punto di vista qualitativo, sono prodotti che si posizionano in uno score alto, quindi già partono da una valutazione effettuata da un utente preparato. È un’ottima base per definire dal punto di vista molecolare tutte quelle caratteristiche che sono legate alla qualità. Lo studio servirà come fondamenta per poi riconoscerle anche nei blend.
Noi stiamo agendo all’interno di un mondo come quello del caffè in cui non esistono ancora punti di riferimento, anche perché tutte le miscele che vengono realizzate dai vari torrefattori hanno una composizione conosciuta solo da loro. In questo tipo di contesto, gli specialty risultano invece meglio analizzabili, anche attraverso un approccio combinato a livello genetico e chimico.
Lo studio su diverse annate di una pianta che è soggetta a tutta una serie di variabili, nello specifico quella degli specialty, ci permette di ampliare la nostra analisi considerando elementi come la varietà, l’altitudine, il terroir ecc. Esistono già diversi dati che forniscono informazioni su alcuni di questi fattori, ma mancava all’appello la validazione dal punto di vista molecolare. Ce ne stiamo occupando noi, attraverso un’analisi che avviene già durante la coltivazione, continua nella trasformazione da naturale a lavato, codificando quindi gli aspetti della produzione per definire la qualità del caffè stesso.
Ecco come procediamo
Tutti i prodotti che arrivano in Accademia sono in grani verdi, per garantire una certa standardizzazione. L’idea è quella di stabilire dei punti fermi: gli specialty nel chicco verde, si tostano sempre in Accademia seguendo gli stessi parametri per ciascuno, e la valutazione dev’esser svolta nello stesso arco di tempo di una settimana, stabilendo determinati cicli di tostatura. Questo è necessario perché nel caffè tostato, che è molto più delicato, c’è un’evoluzione/ degradazione delle molecole contenute molto rapida. Questa attività iniziale prevede un arco di tempo di tre anni: il progetto è ambizioso e non si esaurirà qui.”
Diretto, quali sono i Paesi coinvolti nella raccolta?
“Saranno presi in considerazione 13 Paesi. Abbiamo iniziato con 4: Guatemala, Honduras, Costa Rica e El Salvador. Quest’anno si aggiungerà il Brasile e poi valuteremo quali altri far rientrare in questa prima fase triennale. L’idea è quella di coprire tutti i maggiori produttori coinvolti a livello mondiale per il caffè specialty e poi coinvolgere anche i caffè africani che rappresentano l’origine del chicco.
In seguito, vorremo studiare altre varietà che possono avere un interesse sul lungo termine per il commercio. Una di queste si chiama Coffeea Stenophilla, specie di Arabica selvatica che mostra una maggiore resistenza al cambiamento climatico. L’anno scorso un gruppo inglese l’ha studiata e ha presentato delle caratteristiche di cosiddetta fitness agronomica, cioè di adattamento. Con dei chicchi che hanno caratteristiche aromatiche simili a quelle dell’Arabica. Il problema è che sono anche più piccoli e presentano per questo un ostacolo alla produzione.
Ricordiamo che una delle applicazioni che si sta portando avanti per migliorare le caratteristiche dell’Arabica nei confronti delle minacce ambientali, è quella di incrociarla con delle varietà di Robusta e Arabica. Se noi quindi avessimo a disposizione una specie come la Stenophilla, che parte da caratteristiche positive ci permetterebbe di migliorare le varietà di caffè presenti nel commercio.”
Gli specialty analizzati devono rispettare determinati criteri dal punto di vista molecolare?
Puntualizza Diretto: “Rigirerei la questione. Ora con le nostre attività vogliamo proprio definire le caratteristiche molecolari: a priori non abbiamo indicazioni sugli specialty se non quelle che riguardano le caratteristiche sensoriali. È un processo inverso il nostro: siamo noi che definiremmo le caratteristiche molecolari,(genetiche) e chimiche di questi specialty. Avremo così un primo atlante degli specialty a fare luce in un contesto di ignoranza.”
A cosa può servire praticamente per la filiera, capire com’è fatto un caffè di alta qualità sotto il profilo chimico?
“Le implicazioni sono su più livelli: una maggiore conoscenza e valorizzazione della bevanda consumata è uno strumento migliore per selezionare, messa a disposizione del consumatore. Un secondo aspetto è sicuramente legato all’origine: attraverso questo studio possiamo arrivare a una piena tracciabilità del prodotto, dal momento del raccolto a quello del consumo. Terzo aspetto: attraverso questo processo di valorizzazione, l’ambizione è quella di aiutare le economie locali.
I siti di produzione, lo sappiamo, si trovano in Paesi mediamente poveri e la coltivazione è affidata a una miriade di piccoli farmers ai quali arriva in tasca veramente poco. È noto che l’incremento del prezzo arriva solo nel momento in cui il prodotto arriva al torrefattore. Noi vorremmo, attraverso questo progetto, contribuire al miglioramento delle condizioni di vita di chi cura la pianta. ”
E’ possibile riprodurre scientificamente la serie di “molecole della qualità”? E a che prezzo?
“Questo è uno dei punti nodali che hanno poi spinto l’Accademia del caffè espresso a promuovere un’attività di questo genere: vogliamo produrre benefici socio-economici in un contesto in cui attualmente le condizioni dei produttori non sono sostenibili. Con questo studio, il prezzo sarà un numero che finalmente sarà influenzato esclusivamente dalla qualità che possa sostenere così i coltivatori. “