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lunedì 14 Aprile 2025
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Luca Montagna, ArtCafé di Parma, torna sul tema etichette del caffè: “Tutti sanno tutto dei commestibili ingeriti, tranne che per questo prodotto. È un grande errore della nostra categoria”

Il torrefattore: “L'etichetta ideale è quella che racconta le origini della miscela. Si potrebbero addirittura rendere note anche le percentuali senza timore, perché sono convinta alla fine che sia il tostatore a rendere unico il blend, attraverso il suo stile di lavoro. Nelle etichette in ogni caso penso che indicare la composizione sia essenziale"

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MILANO – Il tema delle etichette sul packaging del caffè è stato sollevato di recente in un episodio di Report. In televisione, su Rai 3, si è visto come, nella maggioranza dei casi al supermercato, i pacchetti di macinato o i sacchetti dei chicchi non portano indicazioni approfondite sul loro contenuto. Questo perché, come è noto, sulla base di un decreto ministeriale del 1973 non esiste un obbligo di legge che porti i torrefattori a specificare dettagli come origine, percentuali, descrizioni aromatiche.

Ci sono tuttavia degli esempi che, al contrario, fanno della trasparenza il loro cavallo di battaglia anche se non spinti dalle norme: ce ne parla Luca Montagna, titolare dell’Art Cafè di Parma.

Etichette complete sì, oppure no? Che cosa ne pensa?

“Sono perfettamente d’accordo con il principio che oggi li consumatore vada informato su cosa sta acquistando e poi bevendo, nel caso specifico del caffè. È innegabile che lungo tutta la storia passata di questa materia prima, non ci siano mai state sulle etichette, le indicazioni di cosa si trovasse all’interno del pacchetto del supermercato, nelle capsule o nelle miscele dei bar. Penso invece che dovrebbe essere un obbligo mettere in chiaro cosa viene messo in vendita, così come per tutti gli altri prodotti commestibili.

Perché nel caffè non si fa?

Una prima spiegazione potrebbe essere collegata al fatto che esistono degli interessi per non fornire troppe indicazioni a riguardo. In secondo luogo credo che molto sia dovuto ad un vuoto storico nella legislazione: oggi c’è bisogno di riempire questo gap normativo.

Attualmente si trovano dei caffè tostati che costano meno di un crudo acquistato all’origine: com’è possibile? Nel vino al contrario ormai nelle etichette sono messe a disposizione tutte le caratteristiche della bevanda: questo stesso paradigma va applicato anche al caffè.

Questo non comporta necessariamente che tutti debbano poi acquistare solo specialty, ma che si facciano degli acquisti consapevoli. Con gli aumenti del caffè ora stiamo vedendo che il consumatore rifiuta a priori i rincari e allo stesso tempo, il barista è il primo a non saper spiegare cosa sta servendo e quindi manca alla base una comunicazione chiara ed efficace, così come la cultura attorno alla bevanda.

Al contrario questo è un passaggio fondamentale per la crescita del settore anche rispetto alle nuove generazioni che prestano maggiore attenzione a ciò che consumano. Parlo di un circolo virtuoso che dovrebbe partire proprio dai torrefattori, senza però attendere l’obbligo di una legge.

All’estero aggiungo, è più facile trovare descrizioni e prodotti corredati da informazioni maggiori nelle caffetterie e questo dovrebbe accadere anche in quella che tutti riconoscono come la patria dell’espresso”.

Montagna: “Ho sempre cavalcato la trasparenza assoluta nelle nostre etichette”

“E la nostra ultima iniziativa lo dimostra: abbiamo realizzato dei cartellini da banco e li abbiamo distribuiti ai nostri clienti, ciascuno con la descrizione delle origini del caffè per tutte le miscele. Dal nostro blend base a quella specialty, dichiariamo al consumatore del bar le origini contenute. Siamo partiti da pochissimo con questa pratica e stiamo già raccogliendo dei buoni riscontri.

Questa è la prova che anche senza scendere troppo nei tecnicismi, è possibile dare spiegazioni chiare ai clienti finali, passando dall’apertura e dalla preparazione dei baristi. Lasciando così il foglietto o la tabella con le indicazioni, il codiddetto bugiardino, a disposizione della lettura, il barista si può occupare del servizio intanto che il consumatore si informa autonomamente. Prossimamente aggiungeremo anche un QrCode per rendere tutto digitalizzato e a portata di smartphone”.

Cosa si trova quindi oggi nella maggior parte delle etichette?

“I dati fiscali, il caffè torrefatto in grani, in macinato, il peso, le modalità di conservazione e il lotto di produzione, la dicitura “data da consumarsi entro il” e chiaramente chi l’ha realizzato. Per il resto ci si deve affidare all’azienda produttrice.

Adesso è incredibile che per il caffè non ci sia la possibilità di analizzare ogni dettaglio: se pensiamo alla diffusione di diverse applicazioni come Yuka, che tramite la semplice scansione di un’etichetta, indica la composizione, provenienza, e molto altro di qualsiasi prodotto, risulta paradossale che non si possano trovare le stesse specifiche per una bevanda che ogni giorno viene così tanto consumata dagli italiani.

Tutti sanno tutto dei commestibili ingeriti, tranne che per il caffè. Questo è un grande errore della nostra categoria, che si accontenta di allinearsi con le disposizioni di legge: oggi non può più bastare. “

Qual è l’etichetta ideale del caffè secondo lei?

“Quella che racconta le origini della miscela. Si potrebbero addirittura rendere note anche le percentuali senza timore, perché sono convinto che alla fine sia il tostatore a rendere unico il blend, attraverso il suo stile di lavoro. Per le etichette? In ogni caso penso che indicare la composizione sia essenziale. E noi lo stiamo facendo per tutti i locali che riforniamo. La curiosità dovrebbe essere quella di andare nei bar concorrenti e iniziare a pretendere le stesse condizioni.”

I torrefattori si stanno orientando verso questa opzione?

“Credo di no. Con l’aumento dei prezzi dell’Arabica e della Robusta, al contrario la tendenza è quella di abbassare ulteriormente la qualità delle miscele. Oggi passa in secondo piano il livello della materia prima offerta. Così si crea un sistema per cui non è il consumatore finale a scegliere che cosa comprare, ma è la torrefazione insieme al broker e al barista.

Che cosa c’è dentro… a chi importa?

Dall’altra dovrebbero agire in maniera più incisiva le associazioni di categoria come la Fipe, o gli organi a protezione del consumatore, per spingere verso etichette più chiare e dettagliate. I Gruppi dei torrefattori? Sono deboli, anche perché ci sono tanti interessi in ballo”.

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