domenica 22 Dicembre 2024
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Espresso: torna sui giornali la diatriba per l’Unesco su un rito che ha origini lontane

Che sia quello tostato nero («tonaca 'e prevete») o tostato marrone «tonaca 'e frate»), il caffè in realtà viene da Kaffa, regione etiopica montuosa, ricca di boschi e di foreste. Il suo nome deriva dalla parola araba Kahvé, che indica la bevanda fatta con i vegetali: quindi anche il vino

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MILANO – La questione che ha diviso l’Italia da nord a sud, contrapponendo in particolare due città, Trieste e Napoli, gira attorno a un rito che per natura dovrebbe invece riunire tutti allo stesso tavolo. Parliamo ancora una volta della candidatura all’Unesco della cultura dell’espresso italiano. Un processo che si è fermato anche a causa della disomogeneità della richiesta, anzi, parliamo al plurale, richieste, presentate dall’Italia. Proponiamo una riflessione che osservi ancora una volta la vicenda, ma da una prospettiva storico-culturale più ampio, di Michele Magno su italiaoggi.it.

Espresso: che cosa c’è dietro il rito?

«Trieste è nel cuore degli italiani, ma il caffè, come la pizza, è nato a Napoli». Lo ha affermato nei giorni scorsi Vincenzo De Luca sulla sua pagina Facebook, riaprendo un’antica contesa con la città di Italo Svevo per l’inserimento della mitica bevanda nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco. Ma il presidente della Campania sostiene una tesi storicamente fondata? Proviamo a rispondere a questa domanda.

Che sia quello tostato nero («tonaca ‘e prevete») o tostato marrone «tonaca ‘e frate»), il caffè in realtà viene da Kaffa, regione etiopica montuosa, ricca di boschi e di foreste. Il suo nome deriva dalla parola araba Kahvé, che indica la bevanda fatta con i vegetali: quindi anche il vino.

Ed è proprio come «vino d’Arabia» che arrivò in Europa agli inizi del Seicento, grazie ai commerci dei mercanti veneziani della Serenissima Repubblica Marinara, ma anche grazie alla guerra. Nel 1683, infatti, dopo la liberazione di Vienna dall’assedio dell’esercito ottomano, gli austriaci festeggiarono la vittoria di Giovanni Sobieski sui turchi di Kara Mustafà inaugurando una casa del caffè all’ombra della cattedrale di Santo Stefano.

Ma a Costantinopoli gli spacci del prezioso seme sono segnalati fin dal 1554, spesso gestiti da mercanti siriani. Fu invece un veneziano, Pietro Della Valle, il primo ad annunciare l’esordio di una bottega del caffè in Italia: era il 1615. Un secolo dopo, nel 1720, in piazza San Marco apriva i battenti il celebre Caffè Florian. Mentre Marsiglia lancia la novità nel 1671, Parigi dovrà invece attendere un gentiluomo palermitano, Francesco Procopio de’ Coltelli, per aprire «Le Procope» nel 1702, con netto anticipo sulla Roma del Caffè Greco. E c’è voluta tutta la passione di un erudito, Livio Jannattoni, per rintracciare nel «Libro dello Stato dell’Anime della Parrocchia di San Lorenzo in Lucina» l’anno della sua fondazione, il 1760, e il nome del capostipite, «Nicola Maddalena caffettiere levantino».

Milano tarderà un po’ a fornire personali contributi al mito nascente; ma quando spunta il periodico «Il Caffè» di Pietro e Alessandro Verri con l’aria di imitare l’inglese «The Tatler» (Il Chiacchierone) di Richard Steele, è già chiaro il futuro progetto meneghino: proporsi come guida morale di un popolo indolente e retrivo. A rappresentare tutti gli innumerevoli e rinomati santuari meridionali della «bevanda del diavolo», come lo definiva la Chiesa, forse basta la liturgica caffettiera napoletana immortalata da Eduardo de Filippo. Per preservare l’aroma del caffè, il grande attore e drammaturgo suggeriva un escamotage casalingo a suo dire infallibile: il «coppitello», un cono di carta da inserire nel beccuccio della caffettiera al momento del filtraggio.

Dovendo scegliere un simbolo partenopeo, tuttavia, non si può non pensare anche a Eleonora de Fonseca Pimentel

La direttrice del «Monitore”», l’eroina della rivoluzione del 1799, che si avvia al patibolo declamando un verso di Virgilio e al magistrato che le chiede: «C’è qualche desiderio che potremmo soddisfare?», risponde serafica: «Una tazza di caffè». Analogamente, per gli entusiasmi suscitati dal «macinino» nell’iter tecnologico dell’Ottocento, basta Er caffettiere filosofo di Giuseppe Gioachino Belli a tramutare in favola amara le vezzose stampe d’epoca: «L’ommini de sto monno so ll’istesso/Che vvaghi de caffè nner mascinino:/C’uno prima, uno doppo, e un antro appresso,/Tutti cuanti, però vvanno a un distino». Dove la similitudine tra gli uomini e i chicchi di caffè in un macinino simboleggia perfettamente, per il poeta, l’assurdità della condizione umana, senza scampo, meccanica e ripetitiva.

Spetta comunque proprio al Caffè Greco il privilegio di fissare in un’immagine della confraternita intellettuale che lì amava incontrarsi in un paese ancora stremato dalla guerra. In una celebre foto di gruppo del 1948, in una delle sue sale vediamo Aldo Palazzeschi accanto a Goffredo Petrassi, Carlo Levi insieme a Pericle Fazzini, Libero De Libero e Sandro Penna, Lea Padovani e Orson Welles, Mario Mafai, Orfeo Tamburi e Renzo Vespignani, Ennio Flaiano e Vitaliano Brancati: un’eclettica rappresentanza del Parnaso postbellico.

Lo storico locale di via Condotti forse non dispenserà più le superbe memorie di un tempo, ma da chi continuerà a visitarlo merita almeno un minuto di raccoglimento un luogo ritratto in uno straordinario dipinto di Renato Guttuso e in cui Nikolaj Gogol scrisse alcune pagine di uno dei suoi capolavori, Anime morte.

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