MILANO – Tanti auguri a Ernst Knam: uno di noi, anche se è nato nel 1963 a Tettnag, cittadina del Baden-Wuttemberg. È arrivato a Milano nel 1989, dopo aver girato in tante cucine stellate europee: la sua sliding door è essere finito in quella di Gualtiero Marchesi, che a fine degli anni ’90 stava vivendo l’ultima grande stagione milanese prima di trasferirsi in Franciacorta.
“Mandai per posta tre curriculum perfetti, completi di ogni elemento: i due grand hotel di Venezia manco mi risposero. Marchesi mi accolse personalmente nel ristorante, parlando un ottimo tedesco: capì subito che sarebbe stata la mia svolta” spiega il pasticciere più famoso in Italia, grazie alle trasmissioni televisive.
Protagonista assoluto su Real Time ne Il Re del Cioccolato e dal 2013, giudice (duro ma dal cuore d’oro) del talent Bake Off.
E dire che non voleva proprio andare in tivù: leggenda vuole che abbia rifiutato undici volte.
Gli auguri in apertura non sono proprio per lui, nato il giorno di Santo Stefano, ma per la sua grande pasticceria in via Anfossi 10 che compie oggi venticinque anni. “Volati in un lampo ma che ho vissuto, con i collaboratori, giorno per giorno, studiando tanto e cercando di migliorarsi sempre”.
Knam, è vero che sognava di fare il calciatore come Oldani?
“Mi piaceva tantissimo il calcio, che ho lasciato durante il servizio militare dove peraltro sono diventato campione dei 5000 metri.
Poi, tornato a casa, sono stato ingaggiato dal Fortuna, la seconda squadra di Colonia, arrivando sino alla B tedesca.
A quel punto, tra i pochi soldi che guadagnavo e la mancanza di un procuratore, mi sono reso conto di avere più prospettive in pasticceria e ho mollato. Mi ispiravo a Lothar Matthaus, due anni più vecchio di me”.
La scelta giusta. Ma perché dopo tre anni da Marchesi ha deciso di fermarsi a Milano e aprire una pasticceria invece che proseguire la carriera in qualche cucina stellata?
“Lui nel ’92 è andato all’Albereta e io mi sono posto una domanda: rimango sotto ‘padrone’, o divento il ‘padrone’.
Camminando per Milano, vedevo solo pasticcerie classiche.
Famose, ottime ma ferme. Io ho portato un po’ di innovazione: perché conoscevo bene la classicità, ma penso che la pasticceria, come la cucina, vada messa a punto, in termini di modernità”.
Marchesi dice che lei a volte fa dei capolavori ed è un po’ matto. Ma non la critica mai.
“Premessa, lui è un artista prima che un cuoco. Gli devo la ‘limatura’ finale della mia gioventù, se possiamo dire così: mi ha insegnato a ‘togliere’ dalle ricette mentre gli altri aggiungevano e quindi gli sarò sempre riconoscente.
Ho incontrato tanti cuochi famosi, con alcuni ho anche lavorato, ma lui è su un altro pianeta. È colto, essenziale. È ‘oltre’. All’estero è osannato”.
Da noi no?
“Guardi cosa ha rappresentato e cosa rappresenta Paul Boucuse per la Francia, sarà Tre Stelle Michelin sino al suo ultimo giorno in cucina.
In Italia, soprattutto i critici hanno cercato di distruggere Marchesi ma è lui che ha portato la cucina italiana al livello a cui è oggi.
E per me la vostra è la numero uno al mondo, insieme a quella giapponese. In Italia c’è il piacere di colpire i migliori, all’estero ne fanno un esempio da imitare”.
Cosa pensa dei pastry-chef ossia dei suoi colleghi che lavorano in un ristorante?
“Devono possedere le basi, poi dipende dalla filosofia del locale. Oggi vedo molti pasticcieri con troppa specializzazione, ma in realtà come per la cucina, la nostra è un’arte a 360°, dove saper passare dal dolce al salato e viceversa resta la vera bravura.
Io l’ho capito perché negli eventi, non mi limito a fare le torte. E comunque si ricordi che un giovane pasticciere può diventare un grande cuoco mentre chi nasce cuoco difficilmente sarà un buon pasticciere”.
Per via dell’assioma pasticceria uguale matematica?
“Non solo, chi lavora pensando solo a questo non farà mai dolci superlativi. La matematica non basta, ci vuole esperienza e soprattutto conoscenza delle materie prime: è questo che devono capire i giovani, invece di venire da me a chiedere di imparare la tecnica. Poi ci vuole passione per un lavoro impegnativo, un pizzico di amore e ovviamente la mano”.
Quanto conta la mano, leggi il talento?
“Esattamente come nel calcio. O ce l’hai, o non ce l’hai. Ti puoi allenare e sostanzialmente devi farlo, ma un po’ di talento lo devi avere. Conosco pasticcieri che tecnicamente sono dei numeri uno, ma i loro dolci non sono buoni”.
Come le vengono tanti abbinamenti apparentemente assurdi?
“Faccio ricerca, studio, provo e riprovo. Per il 99 per cento delle persone il pepe di Timut è un prodotto sconosciuto, per me è normale: agrumato, buonissimo, ideale per dolci. Il Gorgonzola sta benissimo con il cioccolato.
E ancora ho inventato una torta al cioccolato con aglio nero fermentato, la gente diceva che ero matto. Ovvio: rimaneva basita sentendo la parola aglio.
Ma l’aglio nero fermentato è tutta un’altra cosa rispetto a quello che conoscono. Oppure il cioccolato che ho fatto con colatura di alici: volevo che si sentisse il mare”.
Ha citato tre volte il cioccolato: lei è un monomaniaco del cibo degli dei.
“In effetti, uno dei miei tanti libri si intitola ‘Che Paradiso è senza cioccolato’. La verità è che è l’unica materia prima in cucina utilizzabile a 360 gradi: caldo, freddo, liquido, duro, in polvere, denso, semidenso, nelle creme, dappertutto.
E poi si abbina facilmente: la coda alla vaccinara è fatta col cacao, lo si usa preparando la selvaggina e non parliamo poi per i dolci…Fantastico, no?”.
Visto che giudica, quali caratteristiche deve avere un dolce per essere buono?
“Sarò noioso ma innanzitutto deve essere realizzato con materie prime eccelse. Poi essere bellissimo alla vista, avere un buon profumo e in bocca deve regalare un’esplosione di gusto, però armonica: quindi non troppo dolce, altrimenti è stucchevole, con la possibilità di sentire ogni ingrediente. Detto ciò, tutti possono fare dei buoni dolci, con passione e costanza”.
Come la mettiamo con le diete, in particolare quelle di uno sportivo?
“Ogni cosa dolce, ben preparata e senza aggiunta di zucchero o burro, non fa male. A meno che non se ne mangi troppa.
E’ scontato ma spesso lo si dimentica: una fetta di crostata alla frutta è parte integrante del pre-partita di un calciatore perché è leggera, nutriente e digeribile. Ma anche un pezzo di buon cioccolato non fa male, anzi. È solo questione di metodo e misura”.
Dopo 28 anni da noi, si sente italiano e milanese?
“Ho passato più del 50 per cento della mia vita a Milano e in Liguria…Penso in italiano e quando vado in Germania dopo due giorni dico “voglio tornare a casa”. Però sono sincero: se giocano, come spesso capita, Italia e Germania tifo la seconda”.
Ma la sua squadra del cuore resta il Bayern.
“Sempre. Da piccolo avevo in camera i poster di Gerd Muller e Franz Beckenbauer, la potenza e l’eleganza. Ora mi piacciono Thomas Muller che sa giocare ovunque e mi è spiaciuto l’addio di Lahm che è stato un grande capitano.
Ho la tessera del Bayern e sono orgoglioso non tanto per i risultati – comunque ottimi, anche se non mi basta più vincere regolarmente la Bundesliga – ma per il modello: i conti in ordine, lo stadio di proprietà, le ‘bandiere’ nei ruoli importanti, l’organizzazione. Per me, il calcio è questo: non quello di Abramovich, dei cinesi o degli arabi”.
Maurizio Bertera