MILANO – Erminia Nodari ha fatto della sua passione per il caffè una professione a 360 gradi, iniziata nel1995: originaria di Bergamo, fondatrice col marito della di Art Caffè Torrefazione e in seguito Critical Coffee nonché componente dell’Advisory Group della Slow Food Coffee Coalition, il suo curriculum è una conferma del suo sviluppato know-how della bevanda. Su queste pagine ha parlato di filiera, di tracciabilità, sostenibilità e qualità. Ora torna per fare il punto su un settore in fermento che ha bisogno oggi più che mai di spingere verso un consumo più attento e consapevole.
Nodari, se dovesse fotografare ora il settore del caffè in Italia rispetto al resto del mondo, che cosa ci troverebbe dentro?
“L’industria italiana del caffè, come sappiamo, è profondamente radicata al territorio, e si è sviluppata, dal dopo guerra ad oggi attorno all’espresso, quindi, è oggettivamente unica e differente dal resto del mondo. Per moltissimi versi il nostro paese è stato ed è tuttora un riferimento culturale per il resto del mondo anche per quanto riguarda il caffè e l’espresso in particolare, che fanno comunque parte del nostro stile di vita. L’espresso è parte della cultura e della socialità italiane e nel mondo le attrezzature più diffuse e apprezzate sono italiane.
Fatta questa premessa, è fuor di dubbio, a mio avviso, che la qualità del tostato in circolazione, per conseguenza di più ragioni, è mediamente bassa o molto bassa e con un valore di mercato, specialmente in relazione all’espresso, che non contribuisce ad alzare la qualità del prodotto e soprattutto la qualità della richiesta. Questo evidenzia a mio parere, che l’Italian espresso style’ e più in generale, il rapporto degli italiani col caffè, sia più un fenomeno di costume che non si fonda sulla reale conoscenza della bevanda.
All’estero spesso l’approccio col caffè è un fenomeno di massa più recente, non vissuto come tradizione e quindi fondato sulla curiosità e sul desiderio di conoscere tutto sulla bevanda, sulle sue origini e sui modi di estrarlo da parte del consumatore. Da parte della filiera, molti dei paesi produttori sono ex colonie di nazioni, che a differenza dell’Italia, hanno mantenuto forti legami e una solida conoscenza con l’agricoltura del chicco, mantenendo una posizione predominante nelle esportazioni.
Questi sono alcuni aspetti che, secondo me, contribuiscono a mantenere forti differenze nell’approccio e nella conoscenza del caffè fra l’Italia e il resto del mondo. Tuttavia, le numerose e recenti fusioni o acquisizioni che hanno visto come protagoniste alcune fra le maggiori torrefazioni e/o imprese italiane e straniere del settore ci danno una chiara lettura dell’urgenza di raccogliere le energie, unire le risorse per affrontare le irrevocabili sfide planetarie che agricoltura ed industria del caffè impongono anche al nostro paese.
Per cui nella fotografia ci vedo un positivo e nuovo spirito aggregativo da parte di molte imprese italiane, che consentirà risposte adeguate, idonei investimenti in ricerca e quindi una possibile crescita qualitativa, coerente con gli impegni che assicurino un futuro all’agricoltura e all’industria del caffè. Unirsi per assicurare una crescita qualitativa del settore fondata sul valore potrebbe essere una svolta interessante anche per i tantissimi micro torrefattori italiani. La frammentarietà purtroppo è uno degli aspetti che impedisce al mondo dei caffè specialty di emergere.”
La qualità della bevanda servita è migliorata?
“Sappiamo in tanti che non è così. Ormai per la maggior parte delle attività che aprono, la voce espresso è quasi marginale e sentita quasi come un dovere la presenza delle attrezzature. I locali, in modo reale o apparente, si ‘specializzano’ e cercano di fare ‘volumi’ con consumazioni che permettono un valore di vendita ben lontano dall’euro dell’espresso. Se affrontata seriamente, l’attività commerciale di bar e/o ristorazione, è davvero piena di ostacoli e quotidiane difficoltà, contro una remunerazione di impresa sempre più risicata.
Sarà molto difficile servire espressi o bevande che vedono protagonista il caffè, finché gli operatori (torrefattori e baristi) non si convinceranno e non faranno altrettanto con i propri clienti che come per vino, distillati e cibo, anche per il caffè esistono differenze sostanziali di qualità, valore e prezzo e che il caffè è il prodotto di tanta fatica, conoscenza e competenze dal produttore al barista. Aiuterebbe forse, stabilire dei punti fermi attorno al tema della qualità, di facile comprensione per il consumatore.”
Nodari, e nelle torrefazioni si cerca di curare di più la materia prima con diversi profili di tostatura?
“Sulla scelta della materia prima, leggendo le cifre, mi pare che i grandi volumi si facciano sempre con i caffè commerciali, con le commodity. In merito alla scelta dei profili di tostatura, credo che la tecnologia ormai offra grandi opportunità per il controllo qualità, a grandi e piccole imprese, ovviamente con finalità differenti in relazione al mercato che le torrefazioni si scelgono. Resta agli artigiani che scelgono la crescita qualitativa, l’onore e l’onere della sperimentazione e della proposta alternativa, e fortunatamente la nuova generazione di torrefattori e baristi italiani ci riserva qualche ottimo esempio.”
Capitolo formazione: le scuole ormai sono tante soprattutto aperte dagli stessi torrefattori. Questo è un buon segnale per il settore, oppure sono addirittura troppe?
Nodari: “La formazione, insieme alla ricerca, rappresenta, a mio avviso, il più importante degli investimenti per tutto il comparto. In Italia è ora ottimamente sostenuta da costruttori e torrefattori e sta dando ottimi risultati perché nella maggior parte dei casi si è scelto un taglio internazionale, incentivando il confronto. Molti dei corsi sono anche indirizzati ai coffee lovers e questa è una strada da percorrere. Una profonda ed aggiornata formazione è fondamentale per valorizzare la figura del barista e per dare dignità alla tazzina. È ovvio che la formazione rappresenta un costo e se è vero che la tazzina rientra
fra i simboli della cultura italiana del cibo, questo costo andrebbe promosso e sostenuto economicamente anche dalle istituzioni.”
È cambiato qualcosa e in che modo, dopo gli anni del Covid per il consumo di caffè dentro e fuori casa?
“Penso che anche nel consumo del caffè, come per il resto dei consumi e dei comportamenti, il Covid abbia lasciato traccia, ma non credo che abbia in qualche maniera contribuito ad influenzare le scelte dei consumatori in modo permanente.”
Tocchiamo la tanto calda – ancora di più in quest’ultimo periodo – questione del prezzo e della qualità: cosa vogliamo dire una volta per tutte a chi ancora non ha capito?
“Il prezzo di un espresso ad un euro oggi è insostenibile a prescindere dalla qualità dello stesso, anche quando le attrezzature sono concesse in comodato d’uso gratuito. Ma, a prescindere da questo, che è un dato di fatto, il prezzo avvilente pagato per un espresso e la sua standardizzazione riflettono tutte le problematiche di cui abbiamo parlato e che vanno risolte, perché l’industria del caffè si regge proprio in gran parte sull’espresso e sulla valorizzazione del caffè.
Quello che è avvenuto per il vino deve avvenire per il caffè, partendo dall’espresso e allargando la proposta ad altri sistemi di estrazione e soprattutto presentando caffè tracciati, con una identità, una storia e caratteristiche di qualità riscontrabili, riconoscibili e condivisibili.”
Lo specialty è ancora un prodotto di nicchia? E le estrazioni alternative stanno prendendo piede?
Nodari: “La diffusione dei caffè specialty è affidata per ora in gran parte ai baristi. Molti piccoli torrefattori artigiani che hanno fatto la scelta ‘specialty’, hanno preferito aprire proprie caffetterie, (come me e mio marito) per mantenere il controllo fino all’estrazione ed al fondamentale racconto. Con l’avvento del digitale, l’unica alternativa è costituita dalla vendita on line.
È molto difficile che venga richiesto ciò di cui non si conosce l’esistenza. La maggior parte della gente che entra in un bar non sa cosa siano le estrazioni ‘alternative’ e il ‘caffè specialty’. Si tratta ancora di una tazza che va proposta, ‘rivelata’ nei suoi codici qualitativi, lontani anni luce da quelli dell’abitudine, e presentata come il risultato di grandi sforzi fatti per migliorare la qualità del caffè dalla sua origine alla sua estrazione.
Il movimento che ne è nato, ormai quasi trent’anni fa e che si identifica principalmente nella SCA, è un movimento culturale, nato dall’intuizione della necessità di cambiamento, molto importante per la sua capacità aggregativa e per gli standard che è stata in grado di diffondere, ma per ora resta una avanguardia e forse, anche per la sua complessità, è
giusto che così resti. L’incremento della qualità globale del caffè e l’incremento del suo valore è una necessità che prescinde dai lotti ‘speciali’.”
E invece sulle capsule? Qual è la sua opinione Nodari, rispetto a sostenibilità e, ancora una volta, qualità del caffè contenuto?
“Il mono porzionato e il suo prezzo contenuto, prevedono per forza lavorazioni, sistemi di distribuzione, vendita, impacchettamento e smaltimento che finora non possono definirsi sostenibili. Ma soprattutto, l’aspettativa di chi acquista il mono porzionato è spesso lontana dalla ricerca di qualità. Ci sono eccezioni, tuttavia, anche per pregressa esperienza so che è difficile coniugare caffè di buona qualità con un sistema che necessita di tostature scure per ottenere discreti risultati visivi in tazza a discapito del profilo aromatico.”
Tracciabilità e trasparenza: due temi che le stanno molto a cuore. Cosa significa oggi? È facile tracciare il caffè e quanto costa?
Nodari: “Si, sono due temi che mi stanno a cuore perché, a mio avviso, sono imprescindibili da un reale e necessario cambiamento di rotta nell’economia globale della filiera del caffè. Fra le commodity tropicali, il caffè può inoltre essere esempio trainante. Uscire dalla condizione di commodity è la prima importante premessa per intraprendere un percorso
di valorizzazione e di controllo da parte del produttore, liberandolo dai vincoli delle speculazioni finanziarie, che nulla hanno a che fare con una agricoltura rispettosa dell’ambiente e utile alla crescita economica e sociale di un territorio.
Un buon progetto di tracciabilità, poggiato su un network aperto a tutti, avvicina il consumatore al produttore e lo rende consapevole delle sue difficoltà e dei suoi sforzi.
Inoltre, tracciabilità significa controllo della qualità, innovazione, digitalizzazione, organizzazione e condivisione delle informazioni. Personalmente, credo moltissimo nelle certificazioni basate sulla tracciabilità e sulla partecipazione ed in particolare nella block chain, che, se ben modulata, rilascia tutte le informazioni e le mette a disposizione di tutti, anche del produttore.
Il modello economico partecipativo non penalizza una parte o l’altra del sistema, ma anzi coalizza per la soluzione di problemi ambientali e sociali che coinvolgono tutti in modo sempre più drammatico.
Tracciabilità e trasparenza sono gli obiettivi che la SFCC, nella quale mi sto impegnando insieme ad altri numerosi colleghi, persegue, attraverso la creazione di una rete inclusiva che promuova appunto l’identità del caffè attraverso relazioni dirette con i produttori.”