BINASCO (Milano) – Enrico Maltoni è una guida d’eccezione quando si tratta di percorrere un viaggio nel tempo lungo la storia delle macchine per l’espresso: al Mumac, il collezionista e co-fondatore, insieme alla famiglia Cimbali, del museo di Binasco ci ha guidato recentemente fra le sale del museo, raccontandoci anche alcuni aneddoti inediti.
Essere traghettati nel corso degli anni per studiare l’evoluzione tecnologica, di design e di costumi di uno strumento che rappresenta ancora oggi l’eccellenza tutta italiana nel mondo, è stata un’occasione da condividere con i lettori.
Maltoni, nel cuore batte la macchina espresso
“La storia del museo parte nel 2012 dall’idea del cavalier Maurizio Cimbali e mia. Con Cimbali abbiamo condiviso il desiderio di aprire questo spazio. Quindi, in occasione del centenario il Gruppo, l’azienda ha dato vita al progetto Mumac (Museo della macchina del caffè): scegliendo di inserire tutti i brand produttori del settore, è stato realizzato un Museo legato al made in Italy, scrigno della storia delle macchine espresso.
Non ce ne sono altri così: esistono dei progetti internazionali in corso d’opera, ma il museo dedicato al made in Italy è solo il Mumac, almeno per il momento. In questo 2022 compiamo 10 anni dalla sua nascita: è uno spazio in evoluzione, dinamico, all’interno del quale cerchiamo costantemente di inserire nuovi modelli. Come collezionista investo sempre nella ricerca per arricchire la collezione.
Alcuni modelli ancora mancano all’appello ed esistono dei marchi interessanti e conosciuti sulla carta – vantiamo un archivio composto da 25mila documenti che aiuta a comprendere meglio ciò che è successo in oltre 100 anni di storia – di cui conosciamo l’esistenza ma che ancora sfuggono nella conoscenza approfondita.
All’inizio ci sono stati dei produttori che hanno costruito delle attrezzature per 4/5 anni, in un quantitativo molto limitato. Macchine quindi che sono inedite, ancora non viste e quindi davvero difficili da reperire.
Maltoni, lei è un po’ l’Indiana Jones delle macchine per espresso
“Un po’ potrei considerami così – sta al gioco Maltoni – in realtà ciò che mi interessa non è la quantità ma la qualità: nella mia piccola officina in Romagna, mi occupo del restauro delle macchine insieme ad altri due assistenti, sia per me, che per altri collezionisti nel mondo. Un trend che sta diventando molto forte “.
Maltoni, ma com’è diventato collezionista di queste attrezzature? È piuttosto specifico come interesse
“Quando ho iniziato eravamo in pochi, due o tre soltanto, e io sicuramente ero il più giovane tra loro ad appena 18 anni: ho iniziato per la bellezza, la storia, la cultura e il fascino che possiedono questi strumenti.
Per me sono delle vere e proprio sculture, curate, dallo stile liberty all’art dèco al design degli anni ‘60. C’è stata un’evoluzione tecnica ed estetica che è possibile apprezzare nei dettagli attraverso le sale del Mumac, lungo i suoi sviluppi e soprattutto osservando il lavoro svolto dai tanti produttori nel corso degli anni.”
Ci avviciniamo alla prima ricostruzione di un antico angolo bar dedicato al 900
“Abbiamo ricostruito in questa sala un banco bar originale risalente al 1914, ritrovato in Piemonte. Esattamente a Gattinara, famoso per un vitigno autoctono. Lo abbiamo restaurato, scegliendo anche tutti gli oggetti d’epoca originali (le bottiglie dei liquori sono in piombo, il dosa caffè che sostituiva il macinacaffè, tenuto sul retro perché produceva troppo rumore e quindi disturbava, la zuccheriera).
La macchina erogava acqua calda in pressione per poter servire un numero alto di tazzine, con un’estrazione che superava il minuto (oggi di regola ci vogliono 25 secondi, precisa Maltoni).
La funzione dell’operatore dietro la macchina non è del barista ancora, ma del macchinista, dotato di patentino e che controllava che il sistema funzionasse correttamente, mentre il servizio della bevanda al tavolo era lasciato al banconista: due figure professionali che hanno iniziato la storia attorno alla bevanda.”
Nella fase critica della prima guerra mondiale, i costruttori continuano a produrre nonostante il numero ridotto di modelli: ci volevano giorni per assemblare i pezzi
“Non tutti i locali potevano permettersele: erano considerati un lusso per molti titolari. All’epoca, alcune città in Italia non avevano la macchina del caffè. A Forlimpopoli per esempio, un Paese di diecimila abitanti di cui sono originario, la prima macchina è arrivata solo nel 1933.
Prima si beveva un caffè a filtro, a percolazione e infusione, che richiedeva più tempo. Si potrebbe semplificare chiamandolo un “americano”, ma il gusto non era molto piacevole. Il vantaggio dell’espresso era che in poco tempo si poteva ottenere una tazza fresca, dall’aroma gustoso seppur fino alla fine degli anni ‘40, con il sistema a vapore e le macchine a colonna, non era possibile ottenere la tipica crema dell’espresso odierno.”
Maltoni, in questo museo c’è anche una colonna sonora musicale per ciascuna sala, con dei monitor che aiutano nel racconto: si entra nella seconda sala
“Una tappa fondamentale, dagli anni ’20 sino a fine anni’40. Fase critica, in cui la produzione del caffè viene limitata all’inizio della seconda guerra mondiale. Ma negli anni ‘20 e ’30, i consumi di caffè erano cresciuti e quindi è stato un periodo storico produttivo. Nel 1940 si inizia a passare alla macchina orizzontale. Ci sono tracce cartacee che raccontano che questo cambiamento era avvenuto ancora prima, ma per il momento non abbiamo trovato i modelli.
Tra i primi modelli orizzontali una San Marco e l’importantissima macchina disegnata da Gio Ponti del 1947: si tratta della Cornuta. Esposta in Triennale e al Musèe des Arts Decoratives del Louvre, l’abbiamo data in prestito per quasi due anni prima della pandemia: per noi è stato un sacrificio non vederla, ci siamo molto affezionati. Per l’evoluzione del design è fondamentale.
Ogni modello ovviamente ha la sua storia: ci sono anche quelle che funzionavano a carbone, dato che in alcune zone non era possibile avere l’energia elettrica, come il modello La San Marco del 1930 dotato di una celletta in cui inserire il carbone e mantenere così una temperatura costante della macchina.
Poi l’evoluzione di design ed ergonomia arriva con la forma orizzontale e lo scalda tazze, con la possibilità di tenerle bene in caldo. Un’intuizione scaturita per migliorare la qualità e servire la bevanda senza che si raffreddasse: ancora non era di moda berla al banco, quindi veniva servita al tavolo. Espresso significava all’epoca una pausa caffè in piena regola, con il tempo necessario ad ordinare, leggere il giornale, in tutta calma. Negli anni ‘40 si cominciano a vedere queste novità.
Le macchine a colonna naturalmente continuano a coesistere sino agli anni ‘50: la seconda guerra mondiale rallenta la produzione, i consumi del caffè si riducono perché anche la materia prima scarseggia e vengono utilizzati altri surrogati, dalla cicoria all’orzo.”
Macchine a colonna e a vapore dopo cinquant’anni, cedono il passo: il terzo ambiente ricostruito è un tuffo in un’altra epoca
“Ecco com’erano i locali del passato, li abbiamo fedelmente ricostruiti a livello maniacale, trovando tutti gli oggetti originali, sino alle riviste e ai pacchetti di sigarette, di quando si poteva ancora fumare al bar.
Dopo 50 anni di macchine a vapore, con un caffè amaro e leggermente bruciato ma fresco e preparato sul momento, nel ‘48 viene brevettato il sistema messo in produzione da Gaggia e Faema: nasce la crema caffè. La macchina che funziona senza vapore ma sempre ad acqua.
Ha una caldaia che viene portata in pressione, poi l’acqua è spinta da una forza di 8 atmosfere grazie ad un pistone azionato da una leva. Quest’ultima, tirata dal barista verso il basso, solleva il pistone che apre una camera dove entra l’acqua, la leva si rilascia, portando in pressione l’acqua bollente ma senza vapore. “
Nasce l’espresso con la crema che porta un grande successo
“Si arriva così all’evoluzione della macchina del caffè, insieme all’aumento incredibile di consumi. Questo locale (ndr: al MUMAC c’è una ricostruzione del tipico bar italiano anni ’50) testimonia cosa volesse dire andare al bar in quegli anni: juke box, televisione, musica, giocare con il calcio Balilla.
C’era tanta voglia di fare, di lavorare, in pieno boom economico, con la 500, il Giro d’Italia: tutti simboli che sono diventati colonne della nostra storia. Qui ci sono tutti i modelli che hanno segnato gli anni ‘50, firmati da grandi designer e architetti, sempre più protagonisti nella progettazione di queste attrezzature.
L’industria è diventata più forte trovando espressione proprio nelle macchine del caffè, favorendo anche l’esportazione all’estero, che si consolida negli anni ‘70/’80, con la produzione in serie, con possibilità di spedizioni più veloci: l’Europa comincia a bere espresso. La cultura della tazzina conquista in primis la Spagna, poi la Francia e la Germania.
Nella quarta sala dedicata agli anni ‘60/’70 Esposta, abbiamo un esempio di design La Cimbali disegnata dai fratelli Castiglioni, la prima ed ancora oggi l’unica macchina per caffè al mondo ad aver vinto il Compasso d’Oro.
I materiali cambiano, non c’è più l’ottone e il cromato: siamo negli anni della pop art, caratterizzata da una fase artistica in cui tutto si colora, comprese le macchine del caffè. In linea con tutti i grandi cambiamenti di costumi ed epocali come lo sbarco sulla Luna. “
Dalla meccanica all’elettronica, protagonista
“I materiali sono diventati misti plastica e metallo, verso gli anni ‘80. La Faema degli anni ‘80, la E91 disegnata da Giugiaro, dove i pulsanti portano a un controllo programmato del tempo e alla velocizzazione nell’erogazione: punto focale, migliorare la praticità, funzionalità, la temperatura.
Il barista diventa sempre più professionale e attento, mentre la qualità del caffè va verso livelli elevati, a fronte di modelli sempre più sofisticati.”
Ma prima del Mumac, come faceva a conservare questi modelli così ingombranti?
“Vengo da una famiglia appassionata di antiquariato, che quindi mi ha dato la possibilità sin da subito di esser organizzato con gli spazi: sono passato dai piccoli magazzini sparsi nel mio paese ai capannoni. Infine, grazie al progetto Mumac, la mia collezione è arrivata qui: possiamo esporre circa 100 macchine e contare su un fondo di magazzino dove risiede il cuore della nostra collezione. In totale abbiamo circa 350 esemplari.”
Com’è restaurarle?
“E’ un’esperienza complessa. È difficile recuperare i pezzi: mi sono attrezzato negli anni, comprando dei macchinari dell’epoca, dei torni, delle frese, per poter ricostruire i modelli. Sono un artigiano, un piccolo costruttore di macchine per caffè.
Oggi con le stampanti 3D e la fonderia, e avendo a disposizione l’archivio storico importante, mi è possibile osservare come una macchina era stata costruita all’origine.”
Maltoni, quindi com’è la macchina del futuro?
Maltoni ride: “E’ sempre difficile questa domanda. Credo che la macchina del futuro dovrà consumare meno energia, esser più sostenibile: sono strumenti che assorbono molto corrente e kilowatt e questo aspetto andrebbe limitato.
Già oggi si sono fatti passi da gigante da parte di tanti costruttori d’Italia in questo senso, ma ancora ci si deve evolvere verso caldaie sempre più piccole che permettono di regolare la temperatura e avere un servizio costante con però un minore impiego di energia.
Anche l’occupazione di spazi più ridotti, dovrebbe esser una delle caratteristiche del futuro: la connessione poi è un elemento che è già presente nei modelli moderni, l’evoluzione tecnologica va ormai verso l’industria 5.0.”