MILANO – Dall’Italia a New York e infine a Londra, il percorso di Edy Piro che è iniziato come designer e 30 anni di esperienza nel digital, si è poi mosso in parallelo al mondo della ristorazione e del caffè, affinando il suo gusto, formandosi come professionista dell’ospitalità e imprenditore. Lui è il proprietario e fondatore di Terrone & Co., torrefazione con sede a Tottenham, nel nord di Londra.
Creatore insieme a Paolo Petrillo della pizzeria Farina a Notting Hill Gate e anche fondatore del coffee shop Farewell insieme a un altro socio, che però dopo 3 anni di attività si è dovuto confrontare con le difficoltà del Covid, chiudendo. Ma Edy Piro è un pioniere, animato da passione e voglia di fare, quindi la strada è ancora lunga.
Edy Piro, dal 2012 Terrone ha voluto cancellare il luogo comune del caffè italiano tostato scurissimo e in miscela, con lo specialty di Londra: com’è nata questa torrefazione e perché poi fuori dall’Italia?
“Innanzitutto non ho quasi mai bevuto caffè in Italia, l’ho sempre quasi paragonato ad una punizione piuttosto che ad un piacere, come invece lo definiva chi me lo voleva offrire.
In quelle occasioni, ho preferito ordinare un succo di frutta alla pera, spesso “offendendo” l’interlocutore. È stato solo molti anni dopo che ho capito perché quella bevanda spesso astringente e amara non fosse di mio gradimento.
Dal 2002 il mio lavoro di designer ed architetto mi ha portato prima a New York e poi a Londra. Fin dai miei primi giorni trascorsi in California, la prima volta nel lontano 1991 e poi nel 2002, sono stato attratto dalla bevanda filtro che veniva proposta nei diners con le colazioni tipo pancakes, di cui vado ancora oggi matto.
Quando nel 2004 da Londra mi spostavo frequentemente in Canada e nella vicina Seattle (WA, Usa), ho scoperto che questa città, anche grazie al successo di Starbucks, vantava e a ragione una grandissima cultura del caffè. In particolare mi aveva colpito il fatto che molti bar lo tostassero direttamente nel retro del negozio.
All’epoca il mio sogno era quello di aprire un ristorante ma di fronte a quella “trasformazione” del chicco attraverso il processo di tostatura, ho capito che potesse esser un giusto compromesso nella produzione di cibo, anzi, mi intrigava molto di più di gestire un classico ristorante.”
Edy Piro: “Dal 2005/6 in poi ho iniziato a informarmi meglio su questa bevanda e su come si potesse erogarla facendo molta attenzione alla qualità.”
“Nel frattempo a Londra ci fu una diffusione, per pochi e molto nascosta, del caffè tostato appositamente per le gare internazionali che hanno reso celebri personaggi come James Hoffmann (campione del mondo baristi 2007) e Gwilym Davies (campione del mondo baristi 2009) insieme alla nascita di (all’epoca) piccolissime realtà come Square Mile Coffee roasters.
In quel periodo eravamo ancora davvero una manciata di persone a gravitare intorno a questa realtà e ai bar nati da questo filone. Si parlava più di sperimentazione che una vera e propria cultura.
Essendo l’unico italiano, decisi di “sfidare” questa scena nascente mettendomi alla ricerca di un compagno di avventura che volesse condividere lo stesso tragitto.
Ad una fiera ho incontrato Simone Meriggi di Perfero caffè e con lui abbiamo cominciato seppur a distanza a selezionare e tostare diversi specialty, spesso difficili da recuperare.
Questa collaborazione è andata poi avanti fino al 2019, quando per ragioni logistiche e l’approccio di Brexit ho voluto spostare tutta la produzione a Londra.
Siamo nati di fatto in Italia ma aperti al mercato estero. Ed ora siamo a Londra sempre affacciati sul piano internazionale.”
La sua esperienza professionale è legata al mondo del design: com’è arrivato a occuparsi della torrefazione? Ha avuto dei mentori, si è formato con Sca?
“Ci tengo a dire che non sono mai stato coinvolto nel processo di torrefazione ma ho sempre gestito la mia piccola azienda contribuendo molto sul lato comunicativo essendo stato per oltre 20 anni un creativo nel settore digitale.
Anzi, soprattutto per i primi anni, ero anche l’addetto alle consegne (in vespa!) ai miei clienti. Subito dopo l’orario di ufficio gestivo tutta la parte logistica.
I miei mentori nel mondo del caffè, per me completamente nuovo, sono stati per lo più le persone che frequentavano la primissima scena dello specialty a Londra: si ricercava e ognuno portava le proprie esperienze sul campo.
Provavamo a modificare i macinini e a realizzare i nostri strumenti per estrarre un caffè tostato in una maniera molto più moderna. Era una fase puramente sperimentale e decisamente appassionante.
All’epoca non esisteva quasi la presenza di Sca e la formazione ce la facevamo da soli. Forse Gwilym Davies e il suo Prufrock era l’unico ad offrire corsi autorizzati, ma francamente non ho mai percorso una strada ufficiale. Non ne ho mai sentito l’esigenza.”
Da dove selezionate il caffè verde? Avete contatti diretti con i coltivatori? Qual è il vostro mercato principale?
“Negli anni l’offerta di specialty verde è decuplicata. All’inizio ricordo che erano davvero in pochi e tra questi, Nordic Approach. Ma non riuscivo, nemmeno con tanta buona volontà, a spedire in Italia. Oggi le cose sono cambiate e con la torrefazione a Londra è davvero facilissimo accedere a del verde di qualità.
Come rapporti diretti spicca quello con la famiglia Barbosa della fazenda Cachoeria in Brasile. Amo le moto e il mio meccanico (dal 2002) è per coincidenza il fratello di una ragazza che lavora in piantagione.
Mi ha detto: “Quando un giorno poi tosterai qui, aiuterai mia sorella a portare il suo caffè” e così ho fatto. Oggi collaboro con loro e sono stato il primo a supportarli per insediarsi con la distribuzione in UK.”
Edy Piro, ma com’è il caffè italiano specialty?
“C’è un grosso fermento orami da anni. Ricordo quando organizzavo i primissimi campionati italiani di Aeropress a Milano e tutti i ragazzi gravitavano intorno allo specialty italiano venivano a trovarmi.
Era come una famiglia allargata. Eravamo davvero comunque in pochi. Oggi vedo tante nuove facce di appassionati alle gare e alle competizioni.
Non penso esisti uno “specialty italiano” di per sé. Ma credo che esista un folto gruppo di appassionati. Il mercato italiano non permette la stessa diffusione che ha investito paesi come l’Inghilterra dove per esempio, non esisteva una cultura del caffè cosi stratificata, ed è quindi stato molto più facile condividere un “nuovo” approccio a questa bevanda.
Quei pochi che tostano chiaro i chicchi di alta qualità in Italia fanno un ottimo lavoro. ma purtroppo non hanno una grande diffusione per via del mercato e del palato di chi paga l’espresso a 1 euro. Pensiamo che qui a Londra un cappuccino specialty costa circa 5 euro…”
Cosa ne pensa della candidatura Unesco dell’espresso italiano tradizionale?
“Ho una pizzeria e anche l’arte del pizzaiolo qualche anno fa è stata dichiarata patrimonio Unesco. Francamente non ne ho mai visto un beneficio tangibile.
Spesso ci si focalizza molto su delle etichette e dei certificati perdendo però d’occhio la realtà quotidiana che invece penso aiuterebbe molto di più il settore in questione.
L’Italia dovrebbe rimboccarsi le maniche per restare sulla mappa del caffè espresso internazionale, piuttosto che cercare un riconoscimento dall’Unesco”.
Ma Edy Piro, oltre ad esser esperto di caffè è anche imprenditore nell’horeca: con la pizzeria e la caffetteria specialty da lei co-fondate, come avete reagito al Covid?
“Sì, sono due realtà collegate. Come ho accennato prima, ho sempre voluto aprire un ristorante ma il caffè è stata un po’ una scorciatoia. E così, nel 2017 ho poi avviato con un caro amico conosciuto a Londra, una pizzeria tradizionale napoletana.
A differenza di quello che avevo fatto con il caffè, in questo caso ho voluto rimanere fedele alla tradizione napoletana della pizzeria piuttosto che adottare un approccio spesso denominato moderno da alcuni pizzaioli di respiro internazionale. Semplicemente perché mi sembra più che modernità, una moda e a mio avviso, anche passeggera.
In ogni caso, il supporto del governo ha aiutato molto le imprese direttamente colpite dal Covid. La pizzeria ha dovuto affrontare grossi problemi legati soprattutto alla gestione dei precedenti locali. Invece con la torrefazione, siamo riusciti a superare il periodo critico grazie a questi incentivi statali. Almeno fino a oggi.”
Attorno a lei, i suoi colleghi gestori come si sono comportati? Ora com’è la situazione? I prezzi si sono alzati? La gente consuma fuori casa? Le materie prime arrivano?
Edy Piro restituisce il quadro: “In generale qui c’è molta collaborazione tra imprenditori anche dello stesso settore. A differenza che in Italia, qui si pensa sempre che c’è posto per tutti e quindi ci si aiuta moltissimo tra di noi anche se si opera nello stesso settore.
Abbiamo stretto tutti i denti e ci siamo rimboccati le maniche spesso dovendoci re-inventare da zero sia nell’offerta che nelle operazioni di gestione. Molti hanno dovuto mollare, ma penso siano di più quelli che alla fine stanno uscendo a testa alta e con
qualche cicatrice rispetto a chi ha dovuto appunto chiudere.
Diciamo che chi non è sopravvissuto a questa batosta del Covid, era già un po’ destinato a non farcela.
Ora (marzo 2022) le cose sono tornate alla normalità e ci sono di nuovo molti turisti. Le persone oltre a consumare da casa sono ritornate a girare per i negozi.
La Brexit è stato un grosso problema sia per la mancanza di materie prime provenienti dall’Italia sia per i prezzi, ma tutto sommato al momento stiamo riuscendo a mantenere una buona offerta.
Il problema principale è la manodopera specializzata come i pizzaioli che prima si reperiva dall’Italia. Oggi è molto difficile e quindi ci stiamo spostando sulla formazione interna.”
Edy Piro, che ci può dire appunto più nel dettaglio, della questione del personale italiano che se n’è andato per il Covid e ora non può più tornare indietro? Anche lei ha questo problema?
“Sì, soprattutto dopo l’estate 2021, quando le cose stavano tornando alla normalità prima di Omicron. È stato un dramma. Poi con tanta pazienza abbiamo costituito il vecchio team pre-covid, quindi personale che aveva già tutte le carte in regola per lavorare qui.
Oggi è praticamente impossibile lavorare qui nel settore della ristorazione partendo da zero e arrivando dall’Europa. Da un lato c’è stata una “selezione naturale” per il personale specifico come può essere un pizzaiolo con esperienza alle spalle. È un grave problema.
In realtà chi c’era ed è andato via, se ha seguito le regole, ora può tranquillamente tornare e lavorare come prima per almeno cinque anni. Il governo ha dato molte possibilità di far rimanere chi bene o male era già stato in UK prima della Brexit, anche solo per 24 ore, prima del primo gennaio 2021. Il problema è che molti italiani non si sono informati bene purtroppo.
Spesso mi auguro di svegliarmi sperando che la Brexit fosse solo un brutto sogno”.
Perché ha deciso di investire all’estero? Fare il gestore a Londra è più “semplice” che farlo in Italia?
“Ho avuto una piccola agenzia creativa in Italia dal 1996 al 2000. Producevamo siti web, CD-Rom e sperimentavamo con tecnologie come quella che in futuro sarebbe diventata “streetview” di Google (ma che nessuno conosceva ancora). Eravamo dei pionieri.
Avevamo fatto richiesta per comprare dei nuovi computer più potenti. Avevamo seguito tutte le trafile burocratiche del caso ed avevamo dei progetti davvero futuristici, che oggi dopo oltre 20 anni sono all’ordine del giorno.
Bene: nelle classifiche, ricordo che i fondi andarono ad una fabbrica di scope e ad una di ascensori di persone note nell’imprenditoria locale.
È stato in quel momento che ho capito che non c’era speranza per una giovane impresa con visioni cosi ampie e allora ho deciso di trasferirmi all’estero appena conseguito l’esame di stato post laurea in Architettura.
Non sono mai davvero tornato, anche se ho insegnato arte digitale per qualche anno all’accademia di belle arti di Frosinone: era davvero insostenibile viaggiare ogni due settimane da Londra.
Comunque non penso sia più facile fare impresa qui, ma credo che sia estremamente difficile e non meritocratico farlo in Italia. Per me la normalità è quella che ho trovato all’estero.
L’Italia era ed è una versione complicata di tutto, vista dall’esterno.”
Quali sono i suoi progetti futuri, Covid permettendo?
“La mia visione è stata sempre quella di rimanere all’interno di una dimensione gestibile da me e da un piccolo team. Sono stato sempre affascinato dalla possibilità di aprire diversi punti vendita e caffetterie anche all’estero, ma nei discorsi portati avanti durante questi anni con potenziali investitori, non è mai stata una scelta che ho preferito fare. Non è detto però che in futuro possa succedere.
Per esempio mi sarebbe sempre piaciuto diventare una piattaforma di espansione per un eventuale marchio italiano che volesse arrivare fuori dall’Italia, ma è stata sempre una mia fantasia piuttosto che un discorso concreto. Chissà magari più avanti”.