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venerdì 22 Novembre 2024
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Eddy Righi sperimenta il caffè maturato per tre anni: “Perché un crudo pagato tantissimo, l’anno dopo viene declassato?”

La proposta: "Se ho un caffè denso, con tante componenti organiche, una varietà botanica nativa che si potrebbe prestare di più all’invecchiamento, potrebbe migliorare dopo qualche anno rispetto ad un lavato fresco e una varietà botanica creata in laboratorio come il Castillo"

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MILANO – Eddy Righi è un professionista che si muove dietro al bancone e dietro alla tazzina, da tantissimi anni e ora è pronto a sperimentare direttamente con la materia prima: così ha portato avanti una ricerca partita nel 2019, sul caffè specialty invecchiato, portato anche in competizione per la categoria brewers.

Righi, prima di lei anche Nespresso e Starbucks, per dire due nomi più noti, hanno messo sul mercato questo tipo di caffè: lei perché ha deciso di concentrarsi su questo genere di verde, quando è vero che la discussione attorno ad esso è controversa?

“Esatto. Se posso: “il concetto che un caffè specialty, un quarto d’ora dopo la tostatura sia vecchio, ha stancato”, in termini di sostenibilità di un progetto, sia esso micro o macro
torrefazione, è sacrosanto.

Io però faccio farei anche un discorso differente: dobbiamo fare i conti con un mercato come quello italiano, in cui il cliente appassionato di specialty non è particolarmente comune.

Sono tanti anni che ne parliamo, ma salvo alcune città come Milano, Firenze e Roma, di caffetterie specialty che investono solo su questa bevanda, ce ne sono davvero poche.

In effetti è così anche nel resto del mondo: mi viene in mente, Tokyo, dove le caffetterie che fanno soltanto specialty, sono principalmente di 25 metri quadri e aperte poche ore al giorno.

Parliamo di situazioni con pochissimi posti a sedere, dei menù che cambiano in continuazione e un servizio individualizzato con prezzi altissimi.

Proprio in una di queste ho conosciuto un torrefattore di 102 anni, nel 2018, che proponeva una carta di caffè con evidenziata la loro età. Ho sviluppato questa idea nel tempo acquistando un caffè nel 2019, che ho lasciato in una cella a 16 gradi costanti per 3 anni, perché si presentava come un verde con grossi limiti in termini di flavor e aroma, sembrava sovra fermentato, quasi difettato.

Viene spontaneo chiedersi ancora prima il perché l’ho acquistato, pagando 1900 per dieci chili per un Panama Geisha della Finca Artman, lupolo microlot durante le 20 ore di fermentazioni anaerobica: presentava dei flavor forti di birra, che poi nel tempo andavano svanendo, lasciando la parte citrica buona del caffè.

Ho deciso di svilupparlo, perché il caffè mi ricordava quello portato dal campione giapponese al mondiale brewers del 2016 al quale ho partecipato a Dublino… che infatti era un Panama Geisha.

Se ci riflettiamo, il processo stesso di maturazione del cibo nasce per la conservazione ed è piuttosto antico: attraverso lo studio di questo fenomeno si è coperto che molti prodotti acquistano valore. Mi viene in mente su tutti, il vino.

Parliamo più che altro di maturazione quindi, non di invecchiamento. E ho scoperto che questo funzionava anche con il mio caffè: migliorava anno dopo anno, mantenendo la water activity pressoché invariata così come le altre qualità in termini fisiche invariate.

Era conservato all’interno di una cella frigorifero. Ho scelto di collaborare con Paolo Scimone che l’ha preservato a queste condizioni specifiche.

Quando l’ho ritenuto pronto all’assaggio, ho pensato di portarlo in competizione.

Il caffè aveva certo degli spigoli, aveva ancora note della birra Stout, di una session Ipa. Il luppolo si sente ancora, ma è qualcosa di unico. A dimostrazione della qualità di questo lotto, Gardelli ne ha venduto a prezzi altissimi, proprio perché è molto raro che però non rientra negli standard di ciò che si cerca nelle competizioni brewers cup.

Ho voluto però portare avanti un discorso preciso: chi vende specialty in Italia fa fatica a venderlo, ha sempre qualcosa che rimane nel magazzino.

Eddy Righi mentre lavora con passione (foto concessa)

Anche con Pascucci, abbiamo delle rimanenze dopo uno, due, tre anni. E allora io provo a porre una domanda: chi definisce che questi caffè, se conservati bene, sottovuoto, ad una determinata temperatura, non hanno le caratteristiche del caffè fresco?

Perché un crudo pagato tantissimo, l’anno dopo va declassato, deprezzato, solo perché è passato del tempo?

In alcuni cibi addirittura si alza il valore in base al passaggio degli anni. Se parliamo di sostenibilità del prodotto che parte alla radice della filiera ma deve arrivare al consumatore, allora non si dovrebbe depotenziare il lavoro di un produttore perché ho acquistato un lotto di caffè che non sono riuscito a venderlo prima dell’anno solare.

Nel mio caso, il caffè è migliorato, non peggiorato. È diventato anzi più godibile: due-tre anni fa, era impossibile finirne una tazza. Oggi invece, chiunque lo beva, lo trova rotondo, piacevole. Certo era rischioso da portare in gara, ma l’ho voluto fare lo stesso.

Iniziamo a ragionare sul fatto che nei magazzini c’è tanto specialty buono che non può essere svenduto. Nel resto del mondo avviene addirittura il contrario. Prima o poi si vedranno sempre di più dei progetti di aging.

Esistono dei caffè ormai con le fermentazioni, che escono dal parametro della tazza clean, sweet, uniform e hanno bisogno di tempo per poter evolvere. Allo stesso modo in cui anche i raccolti freschissimi non sono apprezzati per la miscela in espresso.

Il tempo se utilizzato bene, è una grande risorsa che abbiamo a disposizione. Non si può pensare che nel giro di pochi mesi dalla sua raccolta non debba più esser apprezzato come all’inizio. “

Come ci ha lavorato sopra?

Righi: “Come ho detto, il verde è rimasto dentro una cella a 16 gradi dal 2019 al 2023. Ogni 4-5 mesi facevo delle prove di tostatura e lo assaggiavo: pian piano sentivo che gli spigoli che c’erano inizialmente, si arrotondavano, mentre emergeva sempre più un’acidità fosforica che si trova molto raramente nei caffè, anche nelle linee guide Sca è considerata tra le più rare.

Il criterio da seguire con rigore è una conservazione meticolosa all’umidità a 60%.

Il limite di quanto si possa far invecchiare, si scopre soltanto all’assaggio: fintanto che si tiene a quei parametri controllati, il profilo va provato in continuazione per capire quando si arriva al punto di non ritorno. Sono convinto che aspettando ulteriormente avrei trovato un profilo meno esplosivo.

Con lo stesso caffè poi ho creato un blend, aggiungendo un 20% di monorigine del Burundi freschissimo, raccolto questo giugno per Pascucci, ottenendo maggiore complessità e rotondità.

Abbiamo visto che provando a servire in altre caffetterie Pascucci non di Milano, dove invece molti sono vicini allo spirito nord europeo, abbiamo ricevuto dei complimenti sui primi test che abbiamo svolto servendo dei caffè del 2017, del 2018: la loro brillantezza si è arrotondata nel tempo, in modo da risultare meno traumatico per il cliente.

Anche il trend della brewers cup ora va verso la miscelazione, proprio per realizzare delle tazze nuove che con la singola origine non si avvertirebbero.”

E costa di più? (viene in mente il caffè The Munch giapponese, invecchiato per 22 anni e venduto a 820 euro a tazza)

“In Italia alzare il prezzo della tazza è complesso. Dipende però molto da come viene spiegato il progetto.

Se non viene raccontato bene il prodotto, si rischia di passare il concetto sbagliato del “pago di più un caffè che però è vecchio”. Ancora una volta è l’operatore che aggiunge il valore alla bevanda, con uno storytelling meticoloso. È come il vino: alcuni caffè sono adattissimi all’invecchiamento, altri non lo sono.

Le ultra fermentazioni anaerobiche, che ora vanno molto di moda, secondo me, avrebbero modo di acquistare maggior valore e non di perderlo.

Così arrivano più dolcemente al palato del cliente che vuole avvicinarsi allo specialty.

In Asia, è un concetto già sdoganato e così può avvenire in Europa, dove solitamente non viene fatto invecchiare perché si acquistano quantità veramente minime per evitare di doverlo buttare.

Invece potrebbe avere un senso comprare uno specialty di grande valore che però è molto distante dai gusti del consumatore finale, e lasciarlo invecchiare con tutte le accortezze del caso, per poi proporlo in una forma più congeniale, così da avere una maggiore sicurezza di non sprecare prodotto.

Si acquista il caffè con una prospettiva diversa da quella di gettare lo specialty dopo sei mesi perché vecchio.

Diventa un investimento di qualche anno, al fine di aggiungere valore a un prodotto.”

Righi, il suo progetto andrà avanti?

Abbiamo il magazzino pieno di questi caffè: dal 2013 lavoriamo con la Cup of Excellence e acquistiamo lotti che poi fatichiamo a vendere nella nostra caffetteria che fa grandi volumi con la miscela più classica.

Bisogna studiare bene come potrebbero comportarsi: cerchiamo di capire come hanno reagito e come lo stesso caffè che ho portato in gara possa arrivare al cliente. Ci sono pochi chili rimasti che potrebbero essere usati per altre discipline, non brewers o barista, ma magari in coffee in good spirits.

Per sottoporli all’invecchiamento, bisogna da valutare soprattutto quali sono le varietà botaniche, l’altitudine, sono le prime cose da valutare ancora prima della processazione.

Se ho un caffè denso, con tante componenti organiche, una varietà botanica nativa che si potrebbe prestare di più all’invecchiamento, potrebbe migliorare dopo qualche anno rispetto ad un lavato fresco e una varietà botanica creata in laboratorio come il Castillo che perderebbe le sue proprietà organiche in pochissimo tempo. Ci sono pochissime ricerche in campo scientifico e io ho voluto provare a portare uno spunto nelle competizioni.”

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