TORINO – I l futuro in una capsula: «Oggi valgono solo il 3 per cento del mercato ma nei prossimi anni arriveranno al 20». Anche per questo Antonio Baravalle (foto) ha deciso di investire 60 milioni nello stabilimento di Gattinara, vicino a Vercelli: «Realizzeremo nuove linee, la Lavazza deve crescere ancora».
Nella sua casa sulla collina torinese l’amministratore delegato della multinazionale del caffè annuncia nuovi investimenti e svela per la prima volta la strategia: «Nel prossimo futuro succederà nel mondo del caffè quel che è accaduto in quello della birra: un gigantesco processo di aggregazione. Prima o poi ci dovremo sedere intorno a un tavolo con gli altri produttori. Tutto ciò che faremo nei prossimi anni servirà ad arrivare a quel giorno. Arrivarci con le spalle larghe per poter trattare da posizioni di forza. Oggi non siamo un’azienda piccola ma non siamo nemmeno giganti. Siamo in mezzo. E ci sono casi, come nel tennis, in cui stare in mezzo al campo può essere molto pericoloso. Per questo dobbiamo crescere».
Dottor Baravalle, perché prevede un futuro di aggregazioni?
«Perché abbiamo i primi segnali. Il caffè è un settore molto interessante per chi vuole investire. Ha un andamento in crescita costante, nonostante le crisi. E ha potenzialità di espansione ancora notevoli. Per questo i grandi gruppi finanziari stanno preparando significativi investimenti».
Com’è posizionata oggi la Lavazza?
«In Italia siamo molto più grandi dei competitor ma a livello internazionale dobbiamo crescere. Oggi siamo l’ottavo roaster mondiale».
Chiederete aiuto alla finanza per i futuri investimenti?
«Abbiamo le risorse per investire da soli. Non siamo quotati, una scelta che ci lascia una notevole libertà di movimento».
Dove investirete?
«Investiremo soprattutto in Italia per poterci rafforzare all’estero. Non è un paradosso. Oggi abbiamo quattro realtà produttive: due in Piemonte, a Settimo e Gattinara, una in val d’Aosta, a Verrés, e una in Molise, a Pozzilli, dove produciamo il decaffeinato e dove recentemente abbiamo ricostruito l’impianto distrutto da un incidente. Abbiamo pensato di riorganizzare i nostri stabilimenti cominciando da Gattinara».
Perché avete scelto quella fabbrica?
«Perché è la fabbrica in cui abbiamo il miglior rapporto con il territorio e anche con i sindacati. Abbiamo un contratto integrativo che garantisce flessibilità negli orari e polivalenza nelle mansioni. Il nostro obiettivo è quello di creare stabilimenti in grado di realizzare sia le capsule sia il caffè in polvere. Solo in quel modo riusciremo a rispondere in fretta ai picchi di mercato dividendo il rischio su più fabbriche. A Gattinara siamo già passati da 300 a 430 dipendenti e saliremo ancora».
Accadrà lo stesso negli altri stabilimenti italiani?
«Pozzilli, in Molise, è stato appena riaperto. Lo abbiamo rimesso in piedi dopo l’incidente. Occupa 20 persone. Avremo potuto trasferire la produzione in una delle altre fabbriche che abbiamo. Abbiamo scelto di tornare a investire in Molise. Lì c’erano 20 famiglie che rischiavano di perdere il posto».
L’altro vostro grande stabilimento è a Settimo, alle porte di Torino. Investirete anche lì?
«A Settimo stiamo discutendo da tempo con i lavoratori. Vorremmo portare anche lì l’organizzazione del lavoro che abbiamo realizzato a Gattinara. Non è facile perché Settimo è il nostro insediamento storico dove ci sono relazioni sindacali e mentalità più tradizionali. Stiamo comunque provandoci e contiamo di riuscirci».
A detta di molti suoi colleghi imprenditori investire in Italia è impossibile. Perché voi lo fate?
«Perché qui sono le nostre radici e perché il made in Italy è un valore apprezzato nel mondo. Il caffè, a differenza di altri prodotti, è facilmente trasportabile. Avremmo potuto investire nel nostro stabilimento indiano, che è largamente sottoutilizzato e che teniamo per ragioni legate ai dazi e alle leggi locali. Invece investiremo 60 milioni a Gattinara e 100 a Torino, per realizzare la nostra nuova sede che sarà anche un’occasione di riqualificazione architettonica del quartiere. Prossimamente continueremo a investire sempre in Italia».
C’è anche un made in Italy in vendita. I rumors sulla Ferrero arrivano dopo che molti altri marchi sono finiti in mani straniere. Lavazza corre questo rischio?
«Lavazza è in mano a una famiglia che, giunta alla sua quarta generazione, ha avuto la lungimiranza di scegliere di affidarsi ai manager per la conduzione operativa del gruppo».
Non è l’unica che l’ha fatto…
«Ma è tra quelle che lo sta facendo meglio».
Certo, lei non è un giudice al di sopra delle parti…
«Lo so. Ma, mi creda, non parlo di me. Vedo il mondo che mi circonda. E le posso dire che non sempre alla decisione di affidarsi a manager esterni alla famiglia seguono poi comportamenti coerenti. Nel caso della Lavazza invece c’è grande integrazione e collaborazione ma anche grande autonomia tra azionisti e manager».
Non come in quelle squadre di calcio in cui il presidente si sostituisce all’allenatore…
«Ecco, da noi questo non succede e credo che alla fine sia la soluzione migliore».
In ogni caso anche la Lavazza che ha scelto i manager, l’azienda che si autofinanzia e non ha bisogno della Borsa, potrebbe finire un giorno in mani straniere?
«Non è un tema sul tavolo. Ma sappiamo tutti che il processo di consolidamento nel settore sarà molto marcato nel prossimo anno. Per questo ci stiamo rafforzando. Per garantirsi l’autonomia è necessario prevedere le mosse degli altri con anticipo e noi lo stiamo facendo. Ci aiutano anche consiglieri indipendenti come Antonio Marcegaglia, Pietro Boroli e Gabriele Galateri con i quali ho un confronto continuo».
A quali mercati guardate?
«Cina, India, Brasile, i paesi emergenti. E soprattutto al Nordamerica. Dove abbiamo raggiunto un accordo con Green Mountain per portare il cappuccino nelle case degli americani. Il latte è l’unico passepartout possibile per riuscire a vendere l’espresso in Usa. Oggi Lavazza realizza il 54 per cento del fatturato in Italia e il 46 all’estero. Vogliamo crescere e arrivare al 30 in Italia e al 70 oltralpe ».
Parliamo di lei. Ha cominciato in un’azienda alimentare, è passato agli alcolici e nel ’99 è entrato in Fiat. E’ stato uno dei Marchionne boys, ha guidato l’Alfa Romeo. Poi è diventato ad di Einaudi e oggi è ceo di Lavazza. Domani tornerebbe in uno dei settori in cui ha già lavorato?
«Primo: io mi trovo bene dove sono ora e mi appassiona il lavoro che stiamo facendo. Secondo: se proprio dovessi un giorno scegliere di cambiare, cercherei una sfida per me nuova».
Non tornerebbe all’auto?
«Con Marchionne ho imparato molto. L’auto è un’industria di grandissima complessità. Marchionne mi diceva: ‘Più difficoltà incontri qui, meglio saprai cavartela. Se superi la prova dell’auto sei a posto’. Aveva ragione. Ma oggi non penso che tornerei in nessuno dei settori dove ho già lavorato. Oggi mi occupo del caffè. Ne gradisce uno?».