Parla l’amministratore delegato Lavazza, Antonio Baravalle: “Il settore vive una fase di consolidamento come accadde anni fa con la birra. I numeri 2 e 3 mondiali si sono già uniti ma noi possiamo andare avanti puntando su innovazione e alleanze strategiche”
di Paolo Griseri*
TORINO – Obiettivo: due miliardi di fatturato all’inizio degli anni Venti. Oggi il valore del venduto è di 1,3 miliardi. Quasi un raddoppio.
Piano ambizioso? «Il minimo per sopravvivere alla rivoluzione prossima ventura ».
Antonio Baravalle, oggi ceo di Lavazza, uno dei Marchionne- boys di inizio decennio, ha una idea precisa sul futuro prossimo: «Partirà una campagna di consolidamenti nel settore del caffè simile a quella che quindici anni fa sconvolse il settore della birra. L’alternativa sarà: innovare e fare alleanze strategiche o essere comperati ».
Baravalle, che cosa temete?
«Non temiamo nulla ma non possiamo dormire sugli allori. I dati del 2013 sono buoni: l’ebidta è salito da 175 milioni a 250 e la cassa è passata da 288 a 388 milioni. L’utile di esercizio è sceso da 97 a 85. L’anno precedente però avevamo incassi straordinari per 38 milioni legati all’alleanza con Green Mountain. Insomma, non ci potremmo lamentare se il futuro non si presentasse incerto ».
Da dove nascono le incertezze?
«C’è innanzitutto un problema di materia prima. La siccità in Brasile rischia di ridurre del 20-30 per cento il raccolto. Solo a giugno sapremo se la scarsità delle precipitazioni avrà rovinato le piante compromettendo anche i raccolti successivi. Il Brasile è il primo produttore per quantità e qualità. Fin dalla fondazione una delle regole di Lavazza è quella di non modificare la miscela. Dunque nel 2014 e forse anche nel 2015 dovremo far fronte a costi più alti degli anni precedenti».
Questo però vale per tutti i produttori premium. Ci sono altre ragioni di incertezza?
«Poche settimane fa il secondo e il terzo produttore mondiale, Mondelez e Master Blenders, hanno annunciato la fusione. Questo cambia completamente le carte in tavola. Fino ad oggi c’era un unico grande produttore seguito nella scala da numerosi produttori medi e piccoli. Lavazza era all’ottavo posto in questa graduatoria. Ora però non basta essere nella top ten. Perché tra quattro-cinque anni, con le alleanze e le fusioni che potrebbero verificarsi, la classifica sarà completamente diversa ».
Pensate di fondervi anche voi con un altro produttore?
«Assolutamente no. Non è questa l’intenzione degli azionisti. Pensiamo piuttosto di investire in innovazione per poter aumentare il fatturato e raggiungere la dimensione che ci consentirà di sederci al tavolo con gli altri produttori in condizioni di forza. A quel tavolo si può arrivare come commensali o come uno dei tanti piatti del menù. È di gran lunga preferibile la prima soluzione».
È per questo che avete iniziato una collaborazione con Illy?
«Penso che il processo di consolidamento al quale andremo incontro avrà dimensione mondiale e non nazionale. Con Illy abbiamo partecipato alla ricerca universitaria sul genoma del caffè. Uno studio molto importante. Del resto, chi doveva farlo se non noi italiani che abbiamo inventato l’espresso?».
Un modo di bere il caffè che fino a poco tempo fa era poco diffuso nel resto del mondo. È ancora così?
«È sempre meno così. Tanto che la stessa parola ‘espresso’ comincia ad essere storpiata da produttori di paesi che non hanno mai avuto questa tradizione. Noi italiani dovremmo correre al più presto ai ripari per evitare che l’espresso faccia la fine della pizza, un marchio non tutelato che trovi in tutto il mondo ma che raramente ha qualche rapporto con la pizza napoletana».
Dunque nessuna alleanza con Illy?
«I rapporti tra le due famiglie sono ottimi così come a livello di management. Noi saremo il caffè ufficiale del Padiglione Italia e loro di tutto il resto dell’Expo. Ma l’alleanza non è una cosa oggi all’ordine del giorno. Penso piuttosto che sarebbe utile unire gli sforzi per radicare in Italia la produzione del caffé di qualità».
A livello internazionale avete invece stretto un’alleanza industriale e finanziaria con gli americani di Green Mountain. Pensate di salire ancora in Green?
«Quella partecipazione ci consente di entrare sul mercato Usa con una macchina per caffè che sia in grado di portare le nostre capsule nelle case delle famiglie americane. Dal punto di vista finanziario, dopo la decisione di Coca Cola di salire dall’8 al 16 per cento di quota, la nostra partecipazione vale oltre un miliardo di dollari. Unita alla cassa attiva per quasi 400 milioni di euro è il gruzzolo che ci permette di guardare alle prossime turbolenze con relativa serenità».
Con l’eccezione dello stabilimento indiano, voi avete scelto di realizzare tutta la produzione in Italia. Non sono molti gli imprenditori che compiono questa scelta. Perché lo avete fatto e a quali costi?
«La famiglia Lavazza ha compiuto questa scelta che io condivido. La produzione italiana è spesso sinonimo di qualità nel mondo, non solo nel caffè. Pensi che cominciamo ad essere apprezzati in Brasile dove il caffè lo coltivano. Per i brasiliani siamo una marca fashion. Produrre in Italia significa dare lavoro agli italiani. A Gattinara, vicino a Novara, abbiamo una nuova linea che inizierà a produrre caffè torrefatto e macinato all’inizio del 2015».
I rapporti con i sindacati?
«I problemi non mancano ma si possono superare con il buon senso. Nei prossimi anni il 70 per cento della nostra produzione sarà per l’esportazione. Oggi è solo il 45 per cento. Abbiamo bisogno di flessibilità e disponibilità a ricoprire diverse mansioni. A Gattinara i lavoratori e i sindacati hanno accettato questa impostazione. A Settimo Torinese, stabilimento storico del gruppo ci sono resistenze. Mi ha colpito, durante uno degli ultimi scioperi, uno striscione con la scritta: «Lavazza delocalizza in Piemonte». Nel mondo globale di oggi sembra abbastanza anacronistico. Comunque anche a Settimo si dialoga. E spero che troveremo una soluzione che vada bene a tutti».