domenica 22 Dicembre 2024
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Il sapore del caffè sfugge alla scienza: «È una percezione illusoria del cervello»

Lo psicologo cognitivo, prova a inserire l’evoluzione nel quadro delle neuroscienze e della meccanica quantistica. Se è vero che i sensi e il cervello tradiscono, dobbiamo concludere che le conoscenze illusorie favoriscono la selezione naturale più e meglio delle conoscenze “reali”

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MILANO – Il cervello è davvero il responsabile dei nostri gusti? Quanto determina il fatto che ci piaccia o meno una bevanda, il sapore del caffè delizi il palato oppure no? La risposta sta nell’interpretazione sensoriale che produce la nostra mente: un’illusione appunto, una sorta di magia insondabile. A cercare di farci comprendere è la scienza, che ha indagato questo fenomeno da molto tempo e che giunge a una svolta nel 2020 con la teoria di Donald Hoffman, 64 anni, professore di scienze cognitive all’Università della California. Leggiamo il percorso che la ricerca ha compiuto sulle percezioni dall’articolo di Piero Bianucci su lastampa.it.

Donald Hoffman e “L’illusione della realtà”

Democrito (400 a.C.) l’aveva intuito per primo. Galileo lo sapeva bene: il rosso non è nella buccia del pomodoro, il profumo nella foglia del basilico, il dolce nel miele, il caldo nella brace. Le proprietà del mondo che osserviamo, i “qualia” per usare il latino dei filosofi, dipendono dalle nostre percezioni.

Esclusivamente e inevitabilmente. Il nostro rapporto con la realtà è indiretto, mediato dai sensi e dalle interpretazioni che ne dà il cervello. E’ il punto centrale de “Il Saggiatore”, l’opera di Galileo che, pur sostenendo teorie sbagliate sulle comete, con un colpo di genio filosofico fonda la moderna epistemologia. Ma allora possiamo dire di conoscere davvero qualcosa?

Che gusto ha il caffè?

“Non c’è mistero scientifico più affascinante e sconcertante dell’origine delle esperienze quotidiane: il sapore del caffè, il suono di uno strumento, la sensazione del proprio corpo affondato nella poltrona”. Così scrive Donald Hoffman, 64 anni, professore di scienze cognitive all’Università della California, nel suo ultimo libro, “L’illusione della realtà” (Bollati Boringhieri, 330 pagine, 24 euro). E prosegue: “Come fa il cervello a produrre questa magia? Agitando quale bacchetta un chilo e mezzo di carne genera una mente cosciente?”. Sono le domande sulle quali oggi siete invitati a riflettere, ammesso che siate ancora in vacanza e possiate permettervi questo lusso.

Il mito della caverna

Nel 280 avanti Cristo Platone pose il problema con il mito della caverna che apre il libro settimo de “La Repubblica”. Gli umani, suggerisce l’allegoria di Platone, sono fin dalla nascita come i prigionieri di una caverna che diano le spalle all’uscita. Davanti a sé hanno una parete che funziona da schermo, alle loro spalle, fuori della caverna, passano oggetti ed eventi del mondo. Un grande fuoco con la sua luce ne proietta l’ombra sul fondo della caverna. Gli umani hanno accesso soltanto a quelle ombre incerte. Oggetti e fatti reali, secondo Platone, costituiscono il mondo delle “idee” pure ed eterne, sono inaccessibili, e del resto se i prigionieri provassero ad uscire dalla caverna sarebbero accecati dalla luce abbagliante del fuoco.

Arriva Kant prima di Donald Hoffman

Passano duemila anni. Dopo Locke, Berkeley e Hume, empiristi con approdo scettico che riducono la conoscenza a un assemblaggio di sensazioni, arriva Immanuel Kant e cerca di mettere ordine per evitare che la realtà svanisca in una nebbia generale. Secondo Kant la realtà esiste, è il “noumeno”, la “cosa in sé” che vorremmo conoscere, affine alle idee di Platone. In qualche misura possiamo accedervi, ma solo attraverso le “categorie” del pensiero – spazio, tempo, causalità… – una mediazione, che si sovrappone ai sensi di cui parla Galileo, ma garantita dall’appercezione, concetto kantiano traducibile in autocoscienza, un “io penso” con validità intersoggettiva.

Il problema non è cambiato

Nel 2020 il problema è ancora quello di Democrito, Platone, Galileo, Kant. La differenza è che oggi per affrontarlo abbiamo il paradigma dell’evoluzione darwiniana, le neuroscienze cognitive e la fisica quantistica, ed è con questi tre strumenti che Donald Hoffmann lavora, nonostante appaiano così lontani e tra loro non comunicanti. Il libro che ne ha ricavato è senza dubbio divulgazione di livello alto, ma non è solo divulgazione. L’autore ha l’audacia (temerarietà?) di proporre la sua personale soluzione della millenaria questione gnoseologica.

Un paradosso

Donald Hoffmann parte da due considerazioni. 1) Il cervello ci inganna nella nostra percezione della realtà: qualche volta possiamo rendercene conto – le illusioni ottiche, per esempio – il più delle volte no. 2) L’evoluzione biologica, fondata su mutazioni casuali e selezione dei più adatti, dovrebbe in teoria avvantaggiarsi di una buona conoscenza del reale (qualunque cosa sia il reale).

Siamo davanti a un paradosso. I punti 1 e 2 sembrano contraddirsi. Eppure la maggior parte degli scienziati, sia pure con alcune cautele, ritiene che la scienza ci dia una visione attendibile della realtà e che una conoscenza migliore sia in ogni caso vantaggiosa. Hanno ragione?

No, secondo Hoffman sbagliano. Succede l’esatto contrario. Da che mondo è mondo l’evoluzione va avanti su conoscenze illusorie: le sensazioni che “inventano” il rosso, il dolce, il caldo; i trabocchetti fisici dello spazio e del tempo newtoniani smascherati dalla relatività di Einstein; l’impalpabile mondo quantistico, dominato dall’ambivalenza onda/particella e dal principio di indeterminazione. Per farla breve semplificando con l’accetta, la conclusione di Hoffman è che oggettivamente – qualunque cosa voglia dire questo avverbio – l’evoluzione funziona proprio perché trae più profitto da conoscenze illusorie anziché “reali”.

Come icone del computer

Sottile e interessante è il dibattito su che cosa sia “reale” che Hoffman ha avuto con Francis Crick, premio Nobel per la scoperta della struttura a doppia elica del dna, dibattito ampiamente riportato in questo libro. Sulla “cosa in sé” Crick aveva un atteggiamento pragmatico: “è un’ipotesi di cui possiamo parlare utilmente”.

Vediamo il Sole, è lecito pensare che ci sia e che continui a esistere anche mentre non lo guardiamo. Hoffman non se ne accontenta, nel suo discorso non ammette ipotesi che alla lunga sembrano puzzare di metafisica, e sviluppa una analogia con lo schermo del computer: le icone stanno ai testi e alle immagini nell’hard disk come le percezioni sensoriali e concettuali stanno alla “realtà”.

Clicco un’icona e compare l’immagine di un pomodoro rosso in un campo verde. Posso ingrandirlo sempre di più finché svanisce in un pixel che non è né rosso né verde, il pixel è lo stato elettrico di un pizzico di atomi che a loro volta simboleggiano un bit di informazione.

In fondo ci sono i bit

Passando per il teorema di non-località di Bell, l’evaporazione dei buchi neri di Hawcking e il principio olografico di Gerardus ‘t Hooft e Leonard Susskind, la convinzione conclusiva di Hoffman è che, se si scava abbastanza a fondo per cercare la realtà ultima, alla fine si trova l’atomo di informazione che è il bit e i bit che costituiscono l’universo – i suoi pixel di spazio e di tempo – sono determinati dalla lunghezza e dal tempo di Planck. Tra un pixel e l’altro non c’è spazio e non c’è tempo; c’è il nulla.

Lascio a Donald Hoffman l’ultima parola riproducendo gli ultimi capoversi del suo libro:

“Galileo colse il messaggio, fece un immenso balzo nella direzione giusta e poi si fermò. Rimase convinto che le nostre percezioni degli oggetti nello spazio, ciascuno con forma, posizione e momento, fossero descrizioni autentiche della vera natura della realtà oggettiva. Molti di noi sarebbero d’accordo.

“Ma la teoria dell’evoluzione per selezione naturale non la vede così. Essa dichiara infatti che la rivoluzione copernicana va ben oltre quanto immaginato da Galileo. Oggetti, forme, spazio e tempo hanno la loro residenza nel corpo sensitivo. Rimosso l’animale, tutte queste qualità verrebbero annichilate. Da parte sua la fisica non ha nulla da obiettare. Di fatto i fisici ammettono che lo spazio-tempo è condannato. Non è il palcoscenico preesistente su cui si svolge il dramma della vita.

“Che cos’è lo spazio-tempo? E’ la vostra realtà virtuale, un casco che vi costruite da soli. Gli oggetti che vedete sono vostre invenzioni. Li create con uno sguardo e li distruggete con un battito di ciglia. Indossate questo casco da quando siete nati. Cosa succede se lo togliete?”

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