domenica 22 Dicembre 2024
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Convegno sul futuro del caffè: si apre il dibattito fra addetti ai lavori con diverse proposte

Continua la discussione attorno ai punti critici, che però sono anche l'opportunità su cui migliorare insieme nei prossimi anni, che si è aperta in occasione del convegno che riunito oltre 120 partecipanti all’incontro, riuniti nell’agora del Campus Simonelli Group

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BELFORTE DEL CHIENTI (Macerata) – Durante il convegno organizzato dal Consorzio promozione caffè all’interno del Campus Simonelli Group, si sono analizzati i problemi e le potenzialità del mercato del caffè con dati alla mano e risultati di anni di esperienza sul campo. Dopo una serie di interventi (che è possibile trovare qui, qui, qui, qui, quie qui), si è aperto il dibattito con una platea di addetti ai lavori, che hanno recepito le informazioni fin lì esposte e hanno esposto le loro opinioni e dubbi.

Michele Monzini è il primo a prendere la parola nel dibattito dalla platea:

“Mi è tornato in mente quando la dottoressa Sobrero ha parlato della casa di vetro e quindi dell’azienda trasparente. Effettivamente le nostre aziende devono essere trasparenti, facendo storydoing e non solo storytelling.
Se facciamo solo storytelling senza storydoing facciamo un danno innanzitutto a noi stessi. In Italia siamo un settore molto frammentato, tutti facciamo caffè e in particolare espresso. Quello che racconterà Cosimo è la spiegazione di quanto il lavorare bene tutti, permette a tutti di crescere. basta che uno soltanto faccia un passo falso per creare una macchia che nuocerà a tutti.

Cosimo Finzi: un aneddoto interessante

“Ieri sera a cena ho raccontato questa cosa che oggi ripropongono. Come Astraricerche facciamo ricerche in tanti ambiti diversi e abbiamo analizzato molti casi di difficoltà.
Ne racconto uno più strutturato: qualche anno fa, sei case di produzione di olio extra vergine d’Oliva, immettono sul mercato secondo la Guardia di Finanza  dell’olio tecnicamente fuori commercio.
Tra le sei ci sono nomi famosi tra i quali Bertoli e Caratelli. Scoppia il finimondo con una classica reazione italiana: l’italiano medio reagisce come se fosse la fine del mondo e non compra più quelle marche. 
All’estero, nel nord Europa, la fiammata iniziale non è così gigantesca, però lì dura molto più a lungo. In questo caso, come Istituto abbiamo deciso di auto commissionare questa ricerca ponendo tre domande: hai sentito al cittadino italiano di questo scandalo? Tantissimi hanno detto di sì. Due: cosa ne pensate? Gravissimo, una cosa inaccettabile.
Quindi la percezione di gravità incredibile di una messa in commercio di un olio vergine invece che extra vergine.
Il punto chiave che è interessante, arriva quando chiediamo, quali sono le marche coinvolte: le 4 marche più riconosciute sono quelle due più celebri Carapelli Bertolli, coinvolte con altre due che non c’entravano niente, mai nominate neppure per errore dai media.
Passiamo all’esempio più recente: lo scandalo di del pomodoro confezionato. Ci capita di fare la stessa cosa e chi viene accusato di esser il cattivo della situazione è Mutti. Io ci scherzo, ma questo fenomeno è gravissimo.
Quando ho iniziato a lavorare due anni fa, se un’azienda x combinava un pasticcio, da competitor ero contento. Ma adesso non è cosi: se lui è l’untore e io sono l’unto, quando capita il pasticcio, il danno è anche su di me.
Per essere chiari: se qualche azienda del settore, in qualsiasi parte della filiera, fa un pasticcio a livello magari di comunicazione o di sostanza, o quel pasticcio non lo fa ma qualcuno esterno accusa di averlo fatto, attenzione. Perché tutti devono drizzare le antenne, soprattutto quelli più attigui, attivandosi.
Nel caso di qualche anno fa quindi, se io fossi Monini, forse mi sarei occupato della comunicazione per dire: non c’entriamo niente.
E’ bello stare insieme, ma in queste situazioni si capisce che seppur nella competizione, evitare gli errori, bisogna remare bene insieme e collaborare nell’immagine complessiva sul mercato positiva. “

Andrej Godina interviene con una domanda sul mondo del bar

Oggi, quando entriamo nel locale è la regola dell’uno. Un solo marchio, un solo prodotto, un solo prezzo, di solito minore di una bottiglietta d’acqua. 
L’acqua non ha nomi, non ha gusto, non ha caffeina, non è neppure un servizio perché viene data in bottiglia e da versarsi da solo.
Il caffè è uno dei pochi prodotti con un prezzo indifferenziato: la marca A costa come quello B, il caffè di qualità costa come quello difettato.

Quali sono i motivi per cui si è arrivati a questo punto e quali le soluzioni per uscire da queste indifferenziazioni?

“Siamo un Paese strano. Tutto quello che è stato detto è verissimo e pensando a livello di studio economico è un grande non sense. Se abbiamo due prodotti venduti allo stesso prezzo di qualità diverse, dovremmo farci qualche domanda.
Il tema è quello: il consumatore è stato educato malissimo, in generale a ragionare sui prezzi. Uno dei grandi temi: esiste il cittadino da un lato e il consumatore dall’altro. Se  intervisto chiedendo qualcosa facendolo ragionare da consumatore, vuole qualità a basso prezzo, se lo si fa ragionare come cittadino, inizia a spostarsi su dinamiche ambientali e sociali.
Se si mettono insieme due cose, chiedendo agli italiani se avvertono il contrasto tra ciò che vuole da consumatore e cosa da cittadino, il 75% risponde: sì tantissimo. Si rendono conto che stiamo giocando sul filo molto sottile, perché a volte si pensa da consumatore e altre da cittadino.
In fondo, il prezzo un po’ più alto avrebbe una ritenuta positiva su tutte le parti della filiera. Un secondo aspetto: se è una commodity avrà quasi sempre lo stesso prezzo e al massimo cambierà tra Milano e Catania. E’ la sola differenza. 
Il punto è che se andiamo all’estero la differenza la vediamo ma non protestiamo perché il caffè lo paghiamo così tanto. Dobbiamo lavorare su questo.
La cosa interessante l’abbiamo vista nella birra: si è riusciti a dare una differenziazione dei prezzi per cui ora se si va a comprare una Ipa 7 e mezzo, una blanche 6 euro, una lager normale 4.50. La parte bassa è rimasta uguale ed è tutto il resto ad esser salito.
Avete sentito una rivoluzione in merito? No. Perché si è creato una percezione di valore.
Dobbiamo fare la stessa cosa sul caffè. Andrebbe studiato in modo approfondito a livello di percezione del barista. E’ importante anche avere un unico prodotto e che lo pubblicizziamo: perché no? Ci sono tanti luoghi dove si vende un prodotto ma c’è un racconto. Noi abbiamo accettato questo aspetto.
Ultima osservazione: il consumatore è stato spinto ad abituarsi a determinati prezzi. Nel mondo dell’olio, sono più o meno tutti d’accordo che 5 euro e 20 per una bottiglia sono una follia, ma poi siamo gli stessi a comprare a quel prezzo nei supermercati e i produttori sono tutti allineati su quella fascia.
Negli ultimi 15 anni guarda caso, la percezione della qualità dell’olio che compriamo si è abbassata: non potevamo spingere invece il consumatore ad esser più consapevole ed evoluto? Bere magari un caffè in meno, ma pagando il doppio per uno che è una goduria?”.

Replica il professor Gregori: quali sono i rischi di questo livellamento

“Questo è il tema classico di marketing. Ragionare in termini di marketing indifferenziato, per cui si va a vendere un prodotto senza differenziare nulla o quello differenziato.
Come fare questo e che effetti si ha sul consumatore finale e l’intermediario? Trovo spesso un frattura quando si parla di valore. Gli esempi potrebbero esser tanti: tu fai uno sforzo industriale per portare un prodotto di valore in quella impresa commerciale, ma quest’ultima non trasferisce lo stesso valore ai suoi dipendenti.
Quindi dividerei le fasi: ce n’è una prima di proposta di valore da parte dell’impresa al suo interno. Poi però questo non basta: è chiaro che la distribuzione ha in mano la politica di prezzo e fa i suoi calcoli.
Quindi il vero problema è ragionare con politiche di trade marketing nei confronti del distributore. Il passaggio fondamentale sono i progetti di category. Tu devi far capire alla distribuzione che se ragioniamo partendo dal consumatore finale e torniamo indietro, convincendoli sul fatto che c’è un acquirente finale che è disposto a pagare qualcosa in più, non lo lascia.
Poi si fa una proposta, facendo comprendere che il value chain dev’essere per tutti: la catena del valore non è solo per te, ragionando su logiche di profitto, poi si devono dividere questi profitti.
Si deve ragionare partendo dal consumatore finale, facendo una proposta di trade marketing al distributore, cercando di capire come anche lui può trarre valore dalla tua offerta di valore.”

Tipo di comunicazione per la sostenibilità. Raccontiamo, per ogni risorsa all’interno dell’azienda la sua attività, il suo compito e come lo fa. La domanda è: come si sostiene a livello comunicativo la sostenibilità a livello di filiera?

Sobrero: “Se i vostri collaboratori raccontano quello che fanno in termini di impegno, è buono: i migliori ambasciatori della sostenibilità sono proprio i dipendenti. Chi ci crede davvero, anche se spesso le scelte della sostenibilità arrivano dall’alto, rappresenta già una cosa straordinariamente positiva. Come poi farlo capire all’esterno? 
Ci sono tanti strumenti, da quelli più classici come il report di sostenibilità che però viene letto dagli addetti ai lavori, a strategie di comunicazione che trasferiscono questo impegno che se raccontato dai dipendenti acquista un valore diverso. A me aveva colpito alcuni anni fa l’azienda Leroy Merlin che aveva fatto raccontare il proprio impegno del report di sostenibilità dai propri dipendenti.
La crescita dell’azienda ne ha tratto beneficio. La sincerità di trader di condividere con tutti gli steakholder le proprie sfide è importante. Bisogna anche, dato che è un percorso anche difficile verso la sostenibilità, anche dire con molta onestà se ci sono state difficoltà che a volte non sono negligenze.
Sono contesti, situazioni complesse che vanno condivise. I bilanci di sostenibilità che mi convincono di più sono quelli che nelle pagine finali hanno delle tabelline in cui si dice che su determinati obiettivi non si è arrivati al 100%, ma che ci si impegna nell’arco di due anni a soddisfarli.”
Maurizio Mutti: “Abbiamo chiesto a un campione di 1.000 aziende, cosa vorreste trovare in uno strumento comunicativo. La prima cosa è stata i nomi dei worst cases: i fenomeni che sono andati male e i motivi per cui sono andati male. Sapere perché altri hanno provato, e perché qualcuno stava andando bene ma poi è andato male: questa è la parte interessante.
Come azienda ho un’esperienza ambientale che non ha funzionato a livello pratico, comunicativo, economico e condivido, in un ambito ristretto, i motivi per cui non è andato bene. Ci scambiamo informazioni in maniera riservata, per capire: attenzione a me non è andata bene, si può fare qualcosa di meglio e di diverso.”
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