MILANO – Quando si parla di cioccolato, il nome di Davide Comaschi compare spesso e volentieri e per ovvi motivi: il maestro non soltanto può contare su anni di esperienza sul campo, maturati all’interno di aziende rinomate a partire dalla Pasticceria Martesana al colosso Barry Callebaut, ma anche sul suo impegno di divulgatore della cultura attorno al cacao e alle sue trasformazioni.
Comaschi: da giovanissimo inizia a lavorare nel settore della pasticceria, passando da studente ad apprendista a imprenditore e maestro. Cosa è cambiato in tutto questo tempo sotto i suoi occhi?
“Il cambio più grosso è avvenuto a livello tecnologico, quindi nella creazione di macchinari e nella possibilità di nuove lavorazioni che hanno portato ad una qualità maggiore e ad effettuare processi prima impossibili.
Queste innovazioni hanno fatto evolvere il settore.
E non solo, perché penso che questo abbia valorizzato il lavoro artigiano: in altri Paesi di Europa, ci sono imprenditori con 300 dipendenti che sono ancora degli artigiani. I grandi numeri certo portano alla standardizzazione dei processi di produzione, al dare un prodotto costante, ma questo non ti rende meno artigiano, anzi.”
Ma in tempi recenti, è vero che il mondo della pasticceria ha conosciuto una riscoperta, complici anche molti programmi televisivi?
“Negli ultimi dieci anni la televisione ha fatto fare un boom di tutta la parte food tra dolce e salato. Ha dato un grande slancio da una parte, ma dall’altra ha fatto credere alle persone che sia un settore idilliaco, quasi privo di difficoltà che invece, nei fatti, naturalmente esistono.
Non tutti diventano grandi chef e maestri. L’immagine del settore è stata molto contorta dalla televisione.
Tanti hanno lasciato il proprio lavoro per fare questo percorso, rendendosi soltanto poi conto che non è esattamente una passeggiata. Si fa per amore. Non è un mestiere per chiunque.
Tante pasticcerie in Italia non sono strutturate per filosofia e mentalità con un’impostazione del lavoro corretta, contando anche i dovuti giorni di riposo: c’è ancora l’idea che si debba lavorare 15 ore al giorno, altrimenti non si è pasticceri.
La percezione di cosa sia un pasticcere però è migliorata: prima era solo qualcuno che non aveva voglia di studiare e che imparava un mestiere.
Ad oggi, le persone hanno studiato anche seguendo percorsi universitari: si parla di chimica, scienza, matematica. Chi vuole farlo deve sapere che c’è da imparare se si
vuole fare la differenza.”
Che cosa fa quindi la differenza appunto, tra un semplice pasticcere e un maestro?
“Ci vuole tanta determinazione, resilienza e voglia di continuare ad essere curiosi e ad imparare. La spinta a mettersi in gioco, a rischiare, deve trovarsi già dentro di sé. Niente arriva naturalmente, ma attraverso ricerca e innovazione, conoscendo prima bene la tradizione e come interagiscono tra di loro gli ingredienti.
Si impara studiando o facendo un percorso diverso da quello di una scuola professionale, che spesso non fornisce gli strumenti per imparare questo mestiere concretamente. Certo poi ci sono istituti come Alma, che danno una formazione importante, ma poi si deve comunque proseguire con degli studi più specialistici.”
Poi Comaschi, lei ha fatto la svolta verso il cioccolato: che cosa ci ha visto in questo prodotto rispetto al resto?
“Il cioccolato è un universo e c’è ancora tantissimo da scoprire. Ad oggi siamo come una tabula rasa, in Italia soprattutto: non sappiamo neppure quale sia quello buono.
Lo conosciamo perché lo mangiano tutti, ma per la maggior parte pensa alla Nutella, al gelato al cioccolato, alle brioche farcite.
C’è un’informazione errata attorno a questo prodotto e quindi per me è diventata una missione: sono stato il primo e unico campione italiano di cioccolateria e in questo ruolo voglio espandere la cultura insieme ad altri professionisti, mettendo insieme maestri e chef che sanno di cosa si sta parlando, per parlare di questo prodotto.
Così come è successo nel mondo del vino negli ultimi 80 anni, anche il consumatore meno
consapevole sa leggere più o meno un’etichetta.
Sul cioccolato, c’è il buio. Si deve colmare questo buco, servendoci anche della velocità della comunicazione: il mio obiettivo è riuscirci in una decina d’anni. È importante per tutto il settore, per far crescere il business delle aziende, dell’industria e dei piccoli artigiani.”
Come mai questa ignoranza rispetto a un prodotto che si mangia sempre, secondo lei?
Comaschi: “Le grandi multinazionali che fanno business sono le stesse che spesso veicolano informazioni non corrette. Non c’è una comunicazione adeguata al consumatore finale quando si parla di cultura. Ergersi contro dei colossi che hanno interessi diversi, rende complicato far arrivare il nostro messaggio.
Il dramma è anche che tra i miei stessi colleghi spesso non si hanno conoscenze complete e queste poi vengono trasmesse al consumatore.
Noi stiamo lavorando su entrambi i fronti. Chocolate Culture è l’associazione che se ne occupa e al suo interno c’è un nostro bambino Chocolove che quest’anno durerà 6 giorni, per il B2B e poi per il consumatore finale, tra masterclass, input, workshop su ciò che è il buon cioccolato.
Le aziende stanno recependo bene il fatto di organizzare queste iniziative. Faremo anche
charity.”
E il discorso di filiera?
“Questo è un altro punto che abbiamo affrontato. Avremo dei produttori dalle piantagioni che parteciperanno al progetto, lavorando a 360 gradi per far conoscere anche quel mondo.
La tavoletta non cresce sugli alberi, ma arriva da una filiera molto lunga. Le persone così si abitueranno a spendere 15 euro per una tavoletta del cioccolato, che sia buona e di qualità. Bisogna soltanto fornire gli strumenti per poter valutare al supermercato.”
Comaschi, nella pasticceria, come valorizzare il cioccolato non soltanto come ingrediente?
“Siamo tra i primi cinque paesi in Europa per consumo di cioccolato, che nella maggior parte dei casi si esprime nelle preparazioni. Abbiamo un grande bagaglio: il problema è come lo mangiamo.
In pasticceria c’è comunque spazio per il cioccolato da utilizzare anche in purezza, ovviamente. Bisogna saperlo però comunicare: il cioccolato è una branca della pasticceria, ma è un mondo a sé. Per il pasticcere è un prodotto che completa l’offerta.
Alcuni invece si sono focalizzati solo sul cioccolato, ma in Italia sono molto pochi rispetto al Belgio e alla Francia. È un discorso più culturale e di tradizione.”
Comaschi, il cioccolato risente, soprattutto in termini di vendite, del problema della stagionalità: nella sua grande esperienza, ha trovato il modo di farlo funzionare anche nei mesi più caldi?
“Il cioccolato noi lo vendiamo sempre, cambiando i gusti. D’estate c’è un calo fisiologico, certo, e le persone sono meno invogliate, ma le preparazioni con il cioccolato come ingrediente, entrano in campo proprio in questi periodi: e allora si propongono torte fresche con cioccolato a latte abbinato alla frutta, per esempio.
Si deve saper accostare, esaltando il cioccolato con qualcosa di più godibile, come realizzare degli snack gelato al cioccolato.”
Passiamo alla Chocolate Academy e al suo lavoro con Barry Callebaut: com’è fare anche da formatore dei nuovi talenti (sono in tanti che vogliono fare questo mestiere?) e cosa significa coordinarsi con una grande azienda come Barry Callebaut?
“Quest’anno è stato veramente pieno di richieste: scuole, aziende, hanno domandato così in tante che ho dovuto anche dire di no perché non riuscivo a gestire tutto con i miei progetti.
Quindi il personale che si vuole formare c’è, bisogna soltanto cambiare l’approccio e la mentalità delle persone ai ritmi di lavoro.
Collaborare con un colosso come Barry Callebaut invece è stata un’esperienza unica come global innovation per tutta l’azienda.
Ho imparato molto, sono stato l’unico italiano a ricoprire questo ruolo. Ho imparato le
dinamiche aziendali di una realtà di 12mila persone: si impara a confrontarsi con ricercatori e scienziati, a dare un valore aggiunto alla visione da artigiano ma su scala globale. Ci siamo dati come associazione l’obiettivo di elevare la qualità anche delle grandi aziende.”
Poi il lancio di un marchio di alta cioccolateria tutto suo: ci racconta cosa c’è dietro questo progetto e in che modo si studiano e realizzano dei prodotti da collocare nei luxury department stores?
“E’ il progetto all’interno di Da Vittorio, un discorso legato alla ricerca nelle piantagioni, del cacao, affiancandosi a dei coltivatori seri per poi realizzare prodotti unici. Si lavora sul fresco. È fondamentale partire dalle origini per l’offerta di un ristorante a tre stelle Michelin.
L’ultima idea che abbiamo lanciato è una scatola di bottoni, all’interno della quale ci sono le istruzioni su come assaggiare, sulle origini e una verticale di degustazione sino al cioccolato bianco, sei tipologie prodotte da noi e da micro produttori.
Tutto questo al costo di 50 euro, proprio per restare vicini al consumatore. Si può trovare a Milano in Piazza San Babila in Corso Matteotti, Da Vittorio d’election, a Bergamo e online.”
Infine: Comaschi cosa vede il suo occhio di maestro nel futuro prossimo del cioccolato? Più sostenibilità nella produzione della materia prima, un inserimento maggiore di macchinari, l’uso di ingredienti alternativi e prodotti free from?
“Il futuro è la scoperta del cacao. Bisogna capire che il buon cacao fermentato bene è già un’esperienza unica. Pochissimi l’hanno provato e ora è il momento di condividerlo. Sostenere i coltivatori di cacao è un’altra frontiera, avendo contatti diretti e formandoli.”