TORINO – Come tutti gli aspetti della vita umana che si fondano sulla necessità e si sviluppano grazie a estro e abilità, il cibo è pieno di contraddizioni: è allo stesso tempo la cosa più intima e più sociale che esista. Ha un rapporto simbiotico con i luoghi in cui nasce e si produce, ma lo esportiamo a migliaia di km di distanza.
È sfacciatamente edonistico e laico, eppure è colmo di rituali e ha profondi significati spirituali. È sempre troppo, o troppo poco. È, in ultima analisi, lo specchio di società e culture, e ne subisce i cambiamenti, le isterie, le mode e gli oblii.
L’introduzione filosofica è stata innescata dalla mia annuale visita al Salone del Gusto di Torino, dove ho potuto toccare con mano (e con bocca) tutte quelle che sono e saranno le “tendenze food” di questo giro d’anni. E mi sono molto divertito a ripescare nella mia memoria scheletri gastronomici, di segno completamente opposto, che hanno segnato per decenni le nostre esperienze culinarie da consumatori “civilizzati”.
Prima che il buon cibo tornasse di moda, prima che qualità e sostenibilità entrassero a far parte del nostro vocabolario quotidiano, prima che cucinare diventasse nuovamente cool, eravamo convinti sostenitori di quei principi alimentari.
Lo “snack” era cibo-spazzatura, sempre e comunque. Ricordate i pistacchi degli anni ’80? Rumoroso sottofondo sonoro nelle sale cinematografiche, principe dei cosiddetti “salatini”? La definizione era calzante, per altro, visto che ti piagavano le labbra e ti facevano schizzare la massima a 160.
Niente a che vedere con gli aromatici, stuzzicanti pistacchi verdi di Bronte, che ho assaggiato con immenso piacere e ruminato con tutta la lentezza che si meritano. Vengono essiccati e lavorati ad arte, come la D.O.P. impone. Quando li mangi hai l’esatta percezione che provengano da un albero, e non da una catena di montaggio. Sono buoni, nel senso pieno del termine, con una serie di benefici per la salute conclamati.
Bello fuori ci bastava, consideravamo trascurabile che il cibo fosse “bello dentro”. Soprattutto se si trattava di prodotti non lavorati, vedi frutta e verdura. Amavamo specchiarci sulla superficie di mele rosse rubino, dove non c’era un’ammaccatura neppure a cercarla con la lente. Mele tutte uguali, con diametri di giottesca precisione.
Eravamo estasiati all’idea di poter mangiare le zucchine da dicembre a dicembre, ci sembrava scontato che il loro colore avesse una perfetta corrispondenza Pantone®. Felici e soddisfatti cuocevamo mezzo chilo di quelle verdissime colonnine ioniche, per condirci a fatica un etto di pasta!
Fortunatamente oggi sono tornati attualissimi vecchi concetti come biodiversità e stagionalità, quindi le zucchine si mangiano da giugno a settembre. Le preferiamo sporche di terra e mingherline, provenienti da un orto mediterraneo invece che da serre olandesi.
Ci stiamo abituando a mele che portano su di sé i segni della loro crescita e delle difficoltà che hanno dovuto affrontare: qualcuna ha zone grigie e qualche buco, non brillano di luce propria, sono piccole, grandi, pastose o croccanti. Ma, nella loro imperfezione, sono davvero gustose.
Ci crogiolavamo nel candore di farine e derivati. Meglio il pane confezionato in cassetta di quello integrale, ricordo ancora troppo recente di un Ancien Régime fatto di povertà e vita nei campi. Orzo e farro si mangiavano con circospezione, e anch’essi decorticati, smaltati e imbellettati!
Il frumento regnava sovrano e la pasta, sua figlia prediletta, era quella dei grandi produttori, delle grandi marche e dei grandi stereotipi che quelle marche rappresentavano. Il sugo “sciava” sugli spaghetti fino a depositarsi sul fondo della scodella.
Oggi la riscoperta dei sapori – e dei cereali – antichi, ha portato sulle tavole e nelle tabelle nutrizionali considerevoli novità, e i termini dell’equazione si sono invertiti: meno raffinato = più gustoso, più salutare, più sostenibile.
La pasta la preferiamo di piccoli produttori, ruvida, magari trafilata in bronzo, capace di fare l’amore con il sugo. La scegliamo nelle sue centinaia di varietà locali: a Catania gli ziti, a Roma i bucatini, a Bologna i tortellini. La provenienza di ciò che mangiamo ha un nuovo, importante valore, per niente scontato.
Le preparazioni rococò coprivano di decori e stucchi i sapori veri degli alimenti. Un esempio su tutti, la cioccolata: i gusti diversi erano determinati dagli ingredienti aggiunti, non tanto dal tipo o dalla quantità di cacao utilizzato. Per anni abbiamo mangiato dei ciocco-totem multistrato, dove si alternavano le consistenze e i gusti più disparati: riso soffiato, caramello, scaglie di presunto cocco, gelatine di presunti frutti rossi, torroni e granelle varie. Il tutto tenuto insieme da dosi massicce di burro di cacao e da un misero 5% di cacao!
Da relativamente pochi anni ho mangiato di nuovo barrette confezionate che contengono almeno il 50% di cacao, e bevuto cioccolata in tazza fatta con cacao in polvere e non con polvere di fata. Al di là dei gusti personali, posso affermare con oggettività che finalmente so che sapore abbia la cioccolata. Sono epifanie che ti cambiano la vita!
La novità
Mi sono chiesto infine cosa sia oggi la novità (non solo gastronomica, ma di questo stiamo parlando). Riscoperta ed elaborazione della tradizione, recupero di tecniche antiche per creare sapori contemporanei, ricerca di ingredienti molto locali per piatti assolutamente internazionali.
Suonano quasi come espressioni retoriche, tanto se ne parla. Eppure fino a ieri nuovo significava distruzione e oblio della tradizione. In nome di prosciutti rosa shocking, formaggini “rimbalzini” e polli palestrati.
Tra tutte le mode gastronomiche, quella attuale è di gran lunga la mia preferita!
Tommaso Bencistà Falorni