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martedì 05 Novembre 2024
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Ma Cursano (Fipe) dice: «Asporto e delivery non bastano a salvare il settore»

Il vicepresidente Fipe: “Oggi sappiamo bene che se prima facevamo 100 di fatturato adesso nella migliore delle ipotesi stiamo fra 20 e 30. La nostra angoscia vera è come facciamo ad aprire con il 100% dei costi e il 25-30% dei fatturati”

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MILANO – La famosa Fase 2 ormai è iniziata, anche se per i pubblici esercizi non ha coinciso con una vera e propria riapertura. Ripristinato oltre al delivery, il servizio d’asporto: una misura che però non è sufficiente per risollevare le sorti di questo settore messo in ginocchio. A lanciare un altro appello al Governo, il vice presidente della Federazione italiana pubblici esercizi (Fipe), Aldo Cursano. Leggiamo le sue parole da quifinanza.it.

Cursano: “La ristorazione rischia di essere cancellata”

Dal 4 maggio, infatti, ai ristoranti è consentito effettuare servizi di asporto oltre che di delivery, circostanza che Cursano definisce un “piccolo segnale”, non sufficiente per garantire la ripartenza dei ristoratori. Le stime parlano di 34 miliardi di euro di perdite nel 2020: lo scenario drammatico è che tante imprese della ristorazione non riusciranno a riaprire.

Lo aveva previsto anche Unimpresa, secondo cui a il 30% delle attività legate al commercio al dettaglio e alla ristorazione non sarà in condizione di ripartire a giugno perché sarà antieconomico farlo: non converrà, cioè, a fronte dei costi fissi da sostenere, sui quali non ci saranno sconti.

Un panorama confermato da Cursano

Secondo cui “parlare di ripartenza senza la possibilità di fare il nostro mestiere, che è quello di vendere alimenti e bevande, è un po’ forzato”. A suo avviso, insomma, “sono delle luci che iniziano ad accendersi intorno a tutto questo buio che ci ha avvolti negli ultimi due mesi. Un segnale limitato solo ad alcuni ambiti”.

Chi riparte e chi no

Ci sono alcune imprese, come gelaterie e pizzerie, che potranno sfruttare l’opportunità del take away “perché ora le persone possono andare a prendersi di persona gelati e pizze dopo due mesi di astinenza”. Per le gelaterie, la ripartenza sarà al 100%, mentre per le pizzerie al 60%.

Diversa, però, la situazione per i bar. Li riaprirà soprattutto “chi ha la conduzione familiare”, perché “per ora non c’è assolutamente quell’economia che consente di richiamare al lavoro i dipendenti o gli addetti alla cucina”.

Discorso simile per le pasticcerie: alcune, ha spiegato, sono riuscite a organizzarsi “se avevano ad esempio il titolare pasticcere e la moglie alla cassa o viceversa”. Ma le strutture organizzate, i caffè storici e la ristorazione nel suo complesso non potrà ripartire senza il personale necessario in cucina, e con il rischio di vendere troppo poco per ripagare i costi.

La ripresa dell’asporto: solo “un segnale”

Chi ha scelto di ripartire, dunque, lo ha fatto più che altro per dare un segnale di fiducia. L’asporto ha dato l’impressione che qualcosa si stia muovendo, ma non può bastare per risollevare le sorti della ristorazione italiana, che rischia la cancellazione.

Senza contare che il crollo del turismo, soprattutto quello internazionale, provoca un conseguente crollo anche delle attività di indotto, tra cui quelle di ristorazione. Secondo Cursano, “oggi sappiamo bene che se prima facevamo 100 di fatturato adesso nella migliore delle ipotesi stiamo fra 20 e 30. La nostra angoscia vera è come facciamo ad aprire con il 100% dei costi e il 25-30% dei fatturati”.

Le richieste al Governo espresse da Cursano per la categoria

È quindi necessario, aggiunge, “fare un patto con le istituzioni nazionali e locali per far sopravvivere il nostro modello identitario”: “Se noi sappiamo di avere una spesa per 100 e incassiamo per 30 non possiamo riaprire. Occorre quindi condividere una responsabilità e un rischio con al centro la sopravvivenza.

Man mano che si riparte si ridistribuisce la ricchezza, ma se adesso abbiamo prodotto zero non possiamo non pagare zero. Il nostro sistema delle piccole imprese non è fondato sui patrimoni ma sul lavoro, sul sacrificio e sul lavoro. Non ci spaventa lavorare dalla mattina alla sera, ma se non si incassa non possiamo lavorare”, puntualizza.

Proprio per queste ragioni, Fipe ha lanciato una petizione che ha raccolto in pochi giorni più di 21mila firme. La richiesta al Governo è quella di “anticipare la fine del lockdown per un settore che in Italia dà lavoro a 1,2 milioni di persone nell’ambito di 300mila imprese, creando un valore aggiunto di oltre 46 miliardi di euro”.

La proposta è quella di “aprire in sicurezza il 18 maggio: a questo proposito, si legge sul suo sito, “Fipe ha elaborato un serio protocollo per garantire nei locali la sicurezza basata sul distanziamento interpersonale e questa è un’assunzione di responsabilità e una dimostrazione di serietà da parte dell’intera categoria”. Ma oltre all’anticipo della fine del lockdown, l’associazione chiede all’Esecutivo aiuti economici: “La prevista riduzione dei fatturati, dovuta proprio al rispetto delle misure di distanziamento, dovrà essere compensata con contributi a fondo perduto e una pari riduzione dell’imposizione fiscale“.

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