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I ristoranti? Si raccontano raccontando i ristoratori

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Perché grandi giornalisti di calcio scrivono di cibo e di vini. Antonio Corbo sa che un piatto porta i segni della storia personale del cuoco e che sui sensi di chi mangia influisce anche l’arredo della sala. La storia sociale della cucina.

Sono tanti i “siti” che si interessano, con solenne serietà, di cucina, sono tanti i commentatori, i giudici, i maghi delle ricette, che le idee del pubblico si confonderanno. Fatalmente. Alla fine, tutti i piatti e tutti i vini risulteranno uguali. E invece la letteratura enogastronomica dovrebbe essere un gioco: se lo fosse, sarebbe una cosa seria. Nella foto: A.S. Pitloo, La spiaggia di Mergellina, 1833.

Qualcuno dimentica che vini e piatti sono elementi del sistema sociale: se non conosci la società, non conosci la sua cucina: le ricette non sono dogmi, ma momenti di storia. Non è un caso che grandi giornalisti di calcio, da Brera, a Gianni Mura, ad Antonio Corbo, abbiano parlato e parlino anche di cucina: il calcio è il modello più completo dei valori fondanti del vivere sociale: l’ “entrata” a gamba tesa, la tecnica, il genio, il caso, la tattica, gli arbitri, vincere, perdere. Ho sempre pensato che i padri del contropiede siano Gengis Khan, Napoleone, Guderian, Moshe Dayan, e che il gioco ” all’olandese” l’abbia inventato Giulio Cesare.

Antonio Corbo scrive di gastronomia anche perché scrive di calcio, e prima di tutto perché conosce in tutte le sue pieghe la società napoletana. Il suo stile magro pare pacato, ma all’ improvviso scatta come lama, sia quando sgonfia le chiacchiere degli allenatori che quando squarcia il velo sulla banda di mariuoli in doppio petto che hanno saccheggiato, a Napoli, la Biblioteca dei Gerolamini, “la più preziosa del Seicento italiano”: “100.000 volumi su 171.000 non sono catalogati, 4000 sono spariti”.(Venerdì di Repubblica, 7 giugno ’13). Antonio Corbo scoperchia il pentolone della “Bufala Connection” , mostra il fango della palude in cui la mozzarella è stata sprofondata da quei produttori che usano latte congelato di mucca e latte straniero ( Venerdì di Repubblica, 19 ottobre 2012), sospetta che la mafia sia “il made in Italy che conquista l’ Europa”(Venerdì di R., 14 marzo’14), spera che questo mondo capovolto possa rimettersi nella posizione giusta.

Dall’analisi della società napoletana e dalla riflessione sulle partite di calcio Antonio Corbo trae la certezza che prima di tutto vengono le persone: non caratteri astratti, ma donne e uomini concreti, sintesi individuali di virtù, di vizi, di passioni e di sentimenti. Gli schemi, le tecniche, le ricette vengono dopo. Il principe dei cuochi, Gualtiero Marchesi, disse una volta, ragionando da romantico, che l’emozione richiede intemperanza e slancio, e perciò l’eccesso di tecnica può sciupare tutto. Il cuoco che pretende di portare un piatto alla perfezione ultima è ridicolo, direbbe Umberto Eco, come chi propone di completare la Venere di Milo appiccicando alle braccia le parti mancanti. Descrivere un piatto significa raccontare, prima di tutto, la storia delle persone che lo pensano e lo preparano, perché quel piatto ” sa” di quella storia: ed è il sapore più importante. A questa filosofia si ispirano le Guide che ” la Repubblica ” dedica ogni anno ai “Ristoranti di Napoli e della Campania” .

Antonio Corbo ne è il curatore, e dai testi si vede quanto la sua “cura” contribuisca ad amalgamare stili e intenzioni di coloro che collaborano alla stesura delle schede. Nella Guida del 2013 quasi tutta la scheda di “Viva lo Re”, ristorante di Ercolano, è dedicata al racconto che Maurizio fa della sua vita, del suo amore per la musica, per Vinicius de Moraes e per Chico Buarque. Intanto “le luci basse riflettono il rame come i tramonti di Siviglia” e gli occhi di “Susi Navarro”, che sono “sciabole”, squarciano l’ombra e svelano gli splendori della parmigiana di alici. In questo gioco di luci anche l’elenco delle etichette dei vini, Villa Dora, Terredora, Maffini, Sorrentino, diventa un brano di un quadro di Manet. Antonio Corbo e i suoi sanno che l’ambiente influisce potentemente sui valori del cibo perché sollecita le sensazioni a combinarsi in un certo modo, e ravviva, nella luce del piacere, non solo i ricordi, ma anche lo sguardo sul presente.

Alla “Pentola magica” di San Gennaro Ves.no lo chef Peppe Ceriello prepara grandi piatti “da gustare con lo sguardo perso nell’infinito delle tele” appese – artistico panorama artificiale – alle pareti della sala. A Napoli il posto della pizzeria “de’ Figliole” è brutto. Quindi vero. Splendido. Una clic di neorealismo. Piastrelle bianche, pochi tavoli, porta aperta sempre. Artigiani, studenti, molti turisti. Attratti dalle “figliole”, non più giovani, ma con la nobiltà delle solari popolane raccontate da John Fante nel dopoguerra”. A Somma Vesuviana “La lanterna” di Luigi Russo è il tempio dell’arte del baccalà: il baccalà, la Catalogna, la Barcellona di Pepe Carvalho, il detective gourmet di Manuel Vàzquez Montalbàn. E allora il tempio di Luigi non può essere che “una trattoria dai colori chiari, una gabbia di vetro luminosa e sincera”, con “frammenti di maioliche bianche e azzurre sulle pareti, quasi a rievocare l’arte di Gaudì”. E il vino non può essere che la catalanesca, e Luigi non può essere che ” discreto”, come il sacerdote di un tempio.

La storia della preziosa cucina provinciale è nella memoria dei cuochi che conservano il culto e le ricette della tradizione: ai “Curti” di Sant’ Anastasia, “la ospitalissima signora dai capelli bianchi” e il marito Carmine; Rosa Romano allo “Smeraldo” di Somma, zia Concetta alla “Quagliarella” di Monteforte; Pasqualina , la “bella nonna” della Pizzeria “Fratelli Cuorvo” di Pomigliano d’ Arco, “capelli cenere e sorriso che non si dimentica”, che aveva nel suo corredo di nozze gli utensili di rame e tirava fuori dal forno “il pane ormai cotto per infilarvi la pizza”. Zie, zii e capelli bianchi: chi si siede a quei tavoli non si sente un cliente, ma uno di famiglia, e perciò prepara la bocca ad assaporare e a giudicare di conseguenza.

Pasquale Marigliano, pasticciere in San Gennarello di Ottaviano, “l’allievo silenzioso di Barry Callebaut”, è un re del cioccolato, ed è un gentiluomo. Il banco della pasticceria è diretto dalla moglie, ” la bella e inflessibile Catherine Brillé”. Ora, l’aggettivo ” inflessibile” è un capolavoro di chiarezza e di sintesi. Chiunque parli, anche per un solo momento, con la signora Brillé Marigliano capirà che nemmeno un lungo discorso può esprimere meglio di quell’ “inflessibile” l’idea di come realtà e simbolo siano la stessa sostanza. Perché il cioccolato di Pasquale Marigliano è veramente cibo degli dei: e dunque la sua dolcezza è rigorosa, essenziale, non cede mai alle sirene della facile piacevolezza: insomma è “inflessibile”. E tocca alla signora Brillé essere plastica figura della meravigliosa arte del marito.

 

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