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venerdì 22 Novembre 2024
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Tirro: “L’espresso napoletano è un’espressione di quello italiano, e litigare in famiglia è limitante”

Il fondatore dell'Accademia italiana barista: "L’espresso italiano è più alla portata di tutti. Non è facile realizzarlo, ma è semplice da comprendere. Ha una comunicazione meno articolata, sicuramente rispetto alle estrazioni alternative. Anche questo dovrebbe definire l’energia dell’espresso: che è un’entità a sé stante al punto che tutto il resto è appunto “alternativo”

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MILANO – Abbiamo visto in azione Cristian Tirro in occasione del Sigep, quando si è pronunciato sul caffè napoletano nel bel mezzo di una Fiera internazionale. Il fondatore dell’Accademia italiana barista di Faenza, ha le idee molto chiare su cosa sia l’espresso e poi il professionista dietro il bancone. Un luogo che lui conosce bene e ha nel sangue, perché, come lui stesso si è definito, è un figlio d’arte.

Tirro, il caffè napoletano allora, come la ispira?

“L’espresso italiano è sicuramente quello che ha portato a pensare l’Accademia italiana baristi, con la volontà di mettere al centro una bevanda da molto tempo poco considerato, ovvero il caffè. Che per noi è un prodotto che ha da sempre caratterizzato il rito italiano e dovrebbe quindi tornare ad esser valorizzato come storico simbolo. Da Angelo Moriondo ad Achille Gaggia, sino alla macchina a Leva: pochi possono vantare lo stesso passato.

Per quanto riguarda invece il caffè napoletano, lo intendo come legato al territorio: nel centro Italia viene bevuto in vetro. A Napoli, ci si è fermati alla macchina a leva, con la gara continua per avere la miscela migliore cercando di mantenere i costi più bassi, e questi fattori hanno stimolato la creazione di una bevanda di uno spessore impressionante.

Avendo lavorato anche dietro al bancone dello storico Gambrinus per due giorni accanto ai ragazzi, ho capito che la fortuna di quell’espresso, l’anima stessa del caffè napoletano, erano gli stessi cittadini. Non si può preparare l’espresso partenopeo fuori contesto.
Di fronte ad una tradizione così radicata come quella di Napoli, fatta dai baristi napoletani che rappresentano una cultura eccezionale, si può soltanto portare rispetto. La loro miscela servita in un contenitore così bollente, è parte integrante della tazzulella.

Penso che l’espresso napoletano dunque non si contrapponga a quello italiano, ma ne sia piuttosto una declinazione. E quindi di fronte al dibattito che spesso si apre attorno a queste due ricette, dico che è un po’ come se il figlio parlasse male del babbo. Invece bisogna esserci una coesione tra i due riti.

Per quasi 100 anni abbiamo fatto la storia del mondo, facendo sì che l’espresso made in Italy diventasse cultura all’estero. Ultimamente sta accadendo il contrario e da fuori stiamo soffrendo l’invasione di questa tendenza composta da 100% Arabica tostati chiari, con caratteristiche complesse che danno la possibilità molto più di un espresso classico italiano, di confrontarsi su diverse sfumature.

L’espresso italiano è più alla portata di tutti. Non è facile realizzarlo, ma è semplice da comprendere. Ha una comunicazione meno articolata, sicuramente rispetto alle estrazioni alternative. Anche questo dovrebbe definire l’energia dell’espresso: che è un’entità a sé stante al punto che tutto il resto è, infatti, “alternativo”.

L’espresso napoletano dunque è un’espressione di quello italiano e litigare in famiglia è limitante. Alcuni hanno osato dire che è un po’ rancido, ma pazienza: sicuramente avrà un’evoluzione anche il gusto. Il bello dell’espresso napoletano è il suo racconto e come tale, non può esser analizzato soltanto con i 4 sensi, ma anche con l’ascolto della sua storia.

Ha una ratio (rapporto acqua/caffè) incredibile: se prendessi una scheda stabilita da certe organizzazioni, dovrei farmi alcune domande e verrebbe da mettere in discussione tutto, perché apparrebbe completamente sbilanciato eppure quella stessa tazzina ha il suo perché. -Tirro è cristallino – L’espresso italiano è sinonimo di libertà, perché non c’è una nazione così brava nel trasformare il caffè, nel bene e nel male. Non bisogna snaturare la sua vocazione. “

Barista VS professionista: come facciamo capire il valore di questa figura?

“Mia madre lavora ancora oggi al bar, dopo 10 anni in cui è già andata in pensione: i locali di mia mamma sono sempre tutti pieni. E dico: il cliente non ha sempre ragione, ma delle volte, rispettare anche realtà legate ad un passato di lavoro che aveva altre modalità, potrebbe essere formativo.

Dietro al bancone, il barista che racconta (foto concessa)

Sicuramente le cose sono cambiate sia in Italia che all’estero. Fare il barista richiede sacrifici, certo, e alcune persone lavorano 12/13 ore al giorno, sette giorni su sette. È una figura che ora si dice in crisi e io aggiungo: farlo in Italia significa alzarsi alle 4, pensare ai croissant, al caffè, fare le ricevute a fine giornata, pulire i tavoli, la sala, i bagni e tanto altro ancora.

Nessun altro deve fare tutto questo, con in più un’altra grande variabile: la mattina non sai mai chi arriva, potrebbe essere anche un controllo della finanza, dei collaboratori che sono malati, e x fattori che ti tengono costantemente in tensione.

L’espresso italiano costa un euro perché deve avere la capacità di esser un anello di congiunzione su tutte le parti che esistono dentro il bar. È un bigliettino da visita: il cliente fa un investimento nella tazzina e spende un euro per comprendere se il locale sia all’altezza delle sue aspettative e può tornare altre volte. Il valore dell’espresso va oltre quella cifra sullo scontrino, perché veicola altri prodotti.

Provoco: perché alcuni ristoranti lo offrono? Perché il valore commerciale della tazzina per loro non è così elevato rispetto al costo complessivo del pasto. L’espresso è un prodotto popolare, un cavallo di Troia per arrivare ad altro. È un’emozione da bere velocemente per poi avere un ricordo da portare a casa: proviamo ad attribuire un valore a questo ricordo e avremo il costo da conferirgli.

Ed ecco che la tazzina contribuisce a dare spessore al lavoro del barista. Che ha la grande capacità di creare cose e l’espresso è una di queste. Attraverso la manipolazione del rituale, con le mani, realizza la tazzina. Come ha detto Benigni: il creare qualcosa è l’unica cosa che ci avvicina al creatore. Noi in quel momento dietro la macchina, raggiungiamo la nostra massima espressione, che acquisisce le caratteristiche dell’operatore.

Sarà capitato di bere un espresso antipatico. Abbiamo quindi una responsabilità rispetto al consumatore, che può esser vittima o ospite del nostro servizio. Quando si fa formazione si parla spesso qualità e mi piacerebbe però capire meglio questo concetto: effettivamente, per l’espresso, di che si tratta? Secondo me, la qualità dell’espresso italiano è il racconto che si trasmette e passa attraverso la risorsa umana: quindi la qualità è il barista.

I torrefattori mettono a disposizione del professionista l’opportunità di fornire qualità e poi siamo noi che la trasferiamo a nostra volta attraverso l’atto di creazione, con un’emozione a cui è difficile fissare un valore economico. E date queste premesse, diventa ovvio considerare quella del barista come una professione alla pari di qualsiasi altra e non una di serie b. Chi pensa il contrario non sa bene di che parla.”

 

 

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