MILANO – Sin da quando è iniziata la pandemia del Covid ci si è chiesti quali fossero i luoghi in cui ci si contagiava maggiormente: i pubblici esercizi così come i mezzi e le scuole, sono sempre stati considerati dei potenziali focolai e da qui, le restrizioni. Ovviamente anche gli uffici non sono stati dimenticati e così è arrivato lo smartworking. Stabilire come si diffonde il virus è comunque difficile: ci hanno provato scientificamente dei ricercatori della Statale di Milano nello studio di Stefano Centanni, primario di Pneumologia all’Asst Santi Paolo e Carlo di Milano. Uno dei dati più interessanti è che i momenti di condivisione come la pausa caffè e pranzo, sono fonti di possibile contagio. Leggiamo i dettagli dall’articolo di Sara Bettoni e Gianni Santucci su milano.corriere.it.
Covid: negli uffici fare attenzione alle pause caffè
In quattro mesi si contagiano in due. Il primo caso di Covid-19 emerge il 17 febbraio, ma non contagia i colleghi: va in ufficio raramente. Il secondo risale al 5 marzo. Trasmette il virus a un familiare e probabilmente a due degli otto lavoratori considerati suoi «contatti stretti». La condivisione dell’ufficio, un open space, e la pausa pranzo in compagnia si rivelano una trappola. Entrambi i pazienti erano asintomatici. Solo la sorveglianza attiva ha permesso di individuarli precocemente e di limitare i focolai. Lo spiega uno studio firmato da Stefano Centanni, primario di Pneumologia all’Asst Santi Paolo e Carlo di Milano, insieme a Gianvincenzo Zuccotti, Emerenziana Ottaviano, Chiara Parodi, Elisa Borghi, Valentina Massa, Cristina Gervasini e Silvia Bianchi (ricercatrici della Statale), che racconta di un’esperienza relativa a una piccola azienda del Milanese.
Il test ha coperto la seconda e parte della terza ondata
È cominciato il 9 novembre del 2020, quando l’azienda ha lanciato il monitoraggio settimanale dei lavoratori. Per individuare eventuali contagi è stato usato il test salivare LolliSponge, sviluppato dalla Statale insieme all’azienda bresciana Copan e impiegato (nei mesi successivi) anche in alcune scuole lombarde.
A differenza del tampone nasofaringeo, questo test è composto da una spugnetta da tenere in bocca per un minuto e si può auto-somministrare: non serve che sia eseguito da un medico o un infermiere ed è meno invasivo. Il campione con la saliva viene poi infilato in tubetto e inviato in laboratorio per le analisi.
Tutti i 32 dipendenti dell’azienda hanno partecipato al test. Gli studiosi hanno esaminato anche la struttura dell’edificio, per comprendere la diffusione del virus: dieci uffici open space con tre-sei postazioni, uno da sei posti in un palazzo vicino, due aree ristoro e una sala da pranzo.
Il primo caso di Covid riguarda una donna 38enne
A causa delle restrizioni previste nella primavera scorsa, va in ufficio saltuariamente. Non infetta colleghi e parenti, che non ha incontrato nei sette giorni precedenti il tampone positivo. Il secondo caso viene scoperto il 5 marzo: si tratta di un 71enne, che trasmette il virus a una familiare. Ai cinque colleghi che hanno frequentato l’uomo viene raccomandato di tenere la guardia alta, anche in casa. Non tutti lo fanno. Tra loro emergono poco dopo due positivi, che lavorano nello stesso open space del 71enne. Uno riesce a «spezzare» la catena di contagio grazie a un rigido isolamento. L’altro non ha le stesse attenzioni e contagia due parenti: uno finisce in ospedale.
Cosa insegna lo studio?
«La sorveglianza attiva è la chiave per proteggere dal Covid comunità “chiuse”» dice Centanni. In particolare, scrivono gli autori dello studio, basarsi solo sui casi sintomatici può rivelarsi un sistema fallimentare nel controllare e contenere l’epidemia. Entrambi i lavoratori positivi, infatti, non avevano sintomi. Secondo il primario i test non vanno messi nel cassetto neppure ora, con la campagna vaccinale a buon punto. Anzi.
«Vediamo tanti positivi tra i giovani. Occorre dire che stanno rispondendo bene alla vaccinazione, ma sono stati chiamati a immunizzarsi per ultimi quindi la copertura non è ancora alta». Il problema rilevante è il numero di over 60 non protetti, che potrebbero essere contagiati dai ragazzi. «Quindi la sorveglianza si dimostra estremamente utile — dice Centanni — . Ci permette di avere numeri reali e di capire dove sta andando l’epidemia». E può aiutare, come suggerisce l’indagine, a proteggere scuole e residenze per anziani.