MILANO – Iniziamo da oggi la pubblicazione dei contributi integrali presentati alla quarta edizione del Trieste Coffee Expert: si comincia con il primo intervento in programma quest’anno e intitolato “È già finita l’era dello specialty?”, tenuto da Cosimo Libardo, Ad Carimali. Muovendo dalla sua esperienza in terra australiana, Libardo passa in rassegna le possibili evoluzioni future del mondo specialty e del segmento del caffè di qualità, con un’analisi storica, economica e sociologica ampia e originale.
di Cosimo Libardo
Chiaramente questo è un titolo un po’ provocatorio per chi lavora e ha vissuto nello specialty da tanto tempo. Io ho deciso di partire da qui perché è una riflessione che deriva da un’esperienza fatta un po’ lontano da qui, per alcuni anni, in Australia: che io considero un mercato specialty maturo, se non addirittura saturo.
È un mercato dove ci sono circa 14.000 coffee shop, punti specializzati in vendita del caffè, 25 milioni di persone, e circa 2.000 torrefazioni tra nano micro e macro. Io in Australia gestivo una delle top 3 e ho visto il mercato cambiare in questi ultimi 4 5 anni.
È un modello interessante perché è come vedere il futuro, non tutti i mercati vanno alla stessa velocità. Per cui, attraverso questa resentazione, volevo condividere con voi alcune cose che ho visto.
Innanzitutto partiamo da cos’è lo specialty coffee
Chiaramente qui ci sono fior di tecnici che potrebbero parlare per ore di che cos’è lo specialty coffee però io ho voluto sintetizzare un po’ come lo vedono i consumatori.
Quindi, se andiamo a distillare come ci vedono i consumatori, fondamentalmente ci vedono come un prodotto di qualità e poi noi abbiamo tutte le nostre definizioni tecniche lungo tutta la filiera che parlano appunto di qualità del caffè verde, fino a 5 difetti secondari, no difetti primari e via dicendo – possiamo dare tutte le definizioni tecniche che vogliamo.
Poi, è un’esperienza di consumo, un’esperienza di consumo che si associa a certi ambienti, a certi modi di berlo, di presentarlo, di prepararlo. E poi, se andiamo a vedere anche una referenza estetica: certi tipi di macchine, certi tipi di sacchetti, i baristi hanno delle cose in comune.
Ecco i consumatori riconoscono lo specialty di solito attraverso questi indizi che noi gli forniamo.
È abbastanza diffuso in tutto il mondo: io entro in un locale di questo tipo e capisco, o spero, che il caffè sia buono.
Per capire dove siamo oggi, secondo me, è importante attraversare le cosiddette fasi dello specialty. Io le ho divise a modo mio. Qui si parla di onde, di tante onde, io personalmente ho difficoltà a qualificarle così. Ebbi la fortuna di cominciare nel mondo del caffè espresso proprio quando lo specialty iniziava: ero in North Carolina, a fare uno stage con l’Istituto per il Commercio estero per studiare il mercato degli Stati Uniti e passai davanti a una vetrina con l’insegna “Counter Culture Coffee”.
La vetrina e tutto il negozio, l’azienda, non erano più grandi di questa stanza a quel tempo. Oggi mi pare che abbiano 22 training center e vari impianti di torrefazione negli Stati Uniti.
Contemporaneamente a Chicago, in Giappone, in Australia e nel Nord Europa veniva fuori un movimento di torrefattori che, scontenti del modello di consumo e di presentazione che esisteva in quel momento, voleva – in una sorta di ribellione – cambiare il modo di fare e bere caffè.
Era una ribellione contro le catene: Starbucks a quel tempo veniva fuori, quindi una sorta di contrapposizione con Starbuks, ma anche contro il modello tradizionale italiano che era quello dominante.
A questa fase che finisce intorno al 2000 dove nascono tutte queste realtà, ne segue una dove vengono nuove torrefazioni, il giro si allarga ad altre aree geografiche: Inghilterra, Canada su tutte. Comunque, la seconda fase è una fase di innovazione. Cominciano ad uscire anche concetti più estremi, tipo la Penny University a Londra nel 2010 di James Softman dove non veniva servito né zucchero, né latte, né espresso. Veniva servito solo brew-coffee all’americana.
Era un concetto chiaramente non sostenibile sul piano economico
Perché i consumatori volevano cose diverse. Però è interessante vedere come tutte queste organizzazioni si siano messe ad innovare, a cercare di creare drink nuovi, a cercare di creare esperienze nuove intorno al mondo del caffè.
La fase successiva è, invece, quella che si può dire glocal
Così la definiscono tutti, cioè, un fenomeno globale che viene localizzato. Si allarga ulteriormente: Repubblica Ceca, Ditta Artigianale in Italia, Corea Arabica, Kyoto, Workshop coffee sempre Inghilterra, Jascaffe Filippine, Seven Fortunes a Dubai, The Underdog in Grecia, Ozone Nuova Zelanda e Inghilterra, Cupping room Hong Kong e Singapore.
Questo per dire con Jascaffe in Cina, abbiamo tutta l’Asia che esplode in Medio Oriente, abbraccia questo movimento, ma comincia poi anche ad adattarlo a desideri di consumo locali e lo specialty a questo punto diventa il modello di riferimento che traina tutto il settore del caffè espresso, chiaramente nella parte alta, e, in generale, perché comunque rappresenta l’esempio, l’aspirazione nel mondo del caffè.
Poi nel 2016 cominciamo a vedere come diventi un fenomeno talmente grande ed attraente che i grandi capitali cominciano a decidere di investirci: Starbucks crea Starbucks Reserve. Non nel 2016 ma dal 2016 in poi comincia a diventare proprio una catena dentro la catena. Abbiamo Intelligentia che viene acquisita da Jab, Toby’s Estate per cui lavoravo, quindi abbiamo una serie di grandi organizzazioni che entrano nel mondo del caffè.
Questa è fondamentalmente una componente del nostro stato attuale, cioè abbiamo grandi capitali che stanno entrando nello specialty ed è una cosa da tener ben presente quando pensiamo al futuro dello specialty.
Ora, dove siamo oggi?
Questa chiaramente è una mia visione. Se volessimo parlare di onde a questo punto, visto che si parlava di prima, seconda, terza e quarta onda, secondo me qua ci sono scogli, secche ed alte maree improvvise più che onde.
Vedo una grande dicotomia sul mercato tra i piccoli, che tendono a frammentarsi sempre di più e quindi ad avere meno presa, meno grip sul mercato, e i grandi invece che, entrati nello specialty, se ne stanno appropriando. È un modello di consumo che il consumatore ha digerito: i grandi sono bravi a fare business e quindi lo usano a loro favore, com’è anche giusto che sia.
Non voglio fare Robin Hood, è così, è la storia dell’industria dell’uomo
Poi abbiamo sotto il “C” market, che sostanzialmente porta i prezzi anche dei caffè specialty ai minimi storici. Io conosco Maurizio Galindo, un caro amico, che era il Head of Operations dell’Ico per molti anni e mi disse anni fa, quando intervenne a Sidney in un evento che organizzavo, che il minimo storico mai raggiunto dal caffè per decenni è stato un dollaro e venti per pound.
Quest’anno, l’anno scorso abbiamo rotto quel record in negativo, ma di brutto:
siamo andati molto sotto e quindi questo è un fenomeno che preoccupa perché la sostenibilità all’origine del mondo del caffè è a rischio.
Ci sono molti contadini che preferiscono piantare altre colture, ad esempio l’avocado.
Poi di là, giusto prima della mia presentazione, si vende il chilo di caffè più caro di sempre: 10 mila dollari.
E io sospetto che l’anno prossimo ce ne sarà uno più caro. Quindi cosa si crea? Che i consumatori non capiscono più chi siamo, perdono contatto con la realtà dello specialty dalla quale, tutto sommato tutte le aziende che sono qui dentro si nutrono. O ne beneficiano in qualche modo.
Quindi noi dobbiamo affrontare un problema che è nascosto, che è appunto quello della mancanza di un modello economico di riferimento.
Il problema grosso, per cui non ci sarà la quarta onda secondo me, è che manca un modello di riferimento. Io avevo circa 800 clienti coffee shop in Australia, tutti specialty, facevano solo caffè specialty, quindi ho avuto una dimensione dello specialty che era abbastanza interessante.
Vedevi che i margini medi sia nostri sia dei concorrenti di un coffee shop in Australia, dove tra l’altro il caffè costa, tra affitti, personale e tutto, alla fine della fiera sono tra il intorno al 10/15%. Tasso di mortalità di un coffee shop è del 75% nel primo anno di vita. In Australia, che è stata votata, ha vinto il premio, come nazione più ricca del mondo (dico votata perché a volte non si sa cosa c’è dietro a queste statistiche).
Ma lo stesso si può dire ovunque, cioè se noi andiamo a vedere, la media potrebbe essere leggermente diversa tra le nazioni, però questo fenomeno esiste ed è considerato quasi normale.
Secondo me c’è un’estrema fragilità proprio qui, un punto di fragilità è questo qui, alla fine della filiera del caffè. Quindi, un modello di riferimento servirebbe chiaramente a dare un esempio a cui attaccarsi, per esempio per chi gestisce un locale.
Ecco, non esistono corsi per fare bene business con il caffè, è interessante vedere come le associazioni non abbiano investito su un modello per insegnare a chi apre un coffee shop a fare soldi con il proprio business. L’altra cosa interessante che io noto è che manca proprio …
Il “C” è il modello di riferimento per lo specialty, ma questo chi l’ha deciso?
Non deve essere così. Io ho fatto trading con vari o compravo direttamente parecchi chili di caffè e ho raggiunto un accordo con il mio fornitore basato su una previsione di come sarebbe andato il mercato ma mettendoci degli spread sopra basati su un premio collettivo: sotto una certa cifra l’avrebbe dato lui a me, sopra io a lui e quindi c’è un patto di stabilità tra me e il mio fornitore.
Non voglio dire che quello sia l’unico modello possibile, anzi ce ne sono mille altri fatti da persone più intelligenti di me, ma io mi chiedo perché noi come settore non lavoriamo a creare modelli alternativi che possano poi essere insegnati chiaramente a origine dove i contadini non è che sono dei laureati in economia, però modelli semplici che possano essere usati da loro anche come esempio di un altro che lo fa, per poter far business ed è la cosa che mi lascia perplesso.
Ecco perché la 4th wave senza un modello economico di riferimento all’inizio e alla fine della filiera produttiva, avrà poca possibilità di esistere
ed ecco perché mi sto ponendo questa domanda, sulla base di quello che ho visto.
Parliamo di ulteriori aspetti che vanno considerati, cosa sta succedendo adesso? Il desiderio di far rumore, di salire su quelli grandi o del mio vicino che chiaramente mi offusca un po’ perché insomma di coffee shop ce ne sono tanti in giro che fanno specialty, qui in Italia meno perché l’Italia sullo specialty porta un 5-6 anni di ritardo, ed è un vantaggio per chi opera in Italia. Perché ci saranno 5-6 anni di ulteriore crescita e c’è un tasso di crescita in Europa del 5-6% probabilmente trainato dallo specialty.
I dati di Allegra parlavano di quello per lo meno nell’ultimo report: mediamente il 5-6%. E poi ci sono questi fenomeni qui, ecco leggete cosa è successo.
Questa donna è andata in un locale, ha pagato 6 dollari per un cappuccino, ha aspettato 20 minuti e gli è arrivato questo. Noi tante volte pensiamo di avere idee geniali nel nostro settore, parlo di noi, del nostro settore e mi ci metto anche io non è che sto giudicando gli altri.
Ha pubblicato una foto e ha detto: No No No, volevo solo un caffè, non un esperimento di scienza.
Pubblicato al pomeriggio ha avuto 4 mila condivisioni su Facebook e 20 mila like entro le sette del mattino dopo, poi è uscita sui giornali e tutto. Questo è quello che i consumatori pensano di noi, perché alla fine si tramuta, quello è un sentimento comune che viene condiviso e bisogna stare molto attenti a queste deviazioni, a quello che sta avvenendo perché questo desiderio di uscir fuori dal rumore di fondo è un desiderio pericoloso.
Altro esempio
Cappuccino con l’alga blu, blu algae cappuccino. Questi sono altri fenomeni di drink vegani che prendono altre mode e le intrecciano con quelle dello specialty che stanno venendo fuori.
Il titolo di un giornale italiano che ho trovato interessante era questo (copiato, non ci ho messo niente di mio, vi posso fare vedere la fonte):
“Caro e poco gradevole al gusto: le ragioni del successo del blue algae cappuccino”.
E poi qua, questa è la parte che a me poi fondamentalmente mi tocca di più. Questo è stato di 3/4 giorni fa. Non è andato tramite asta, Cup of Excellence, questa è una vendita privata, un’operazione di puro marketing che da un lato sicuramente forse porterà alle ditte che sono coinvolte un ritorno economico ma nel nostro settore secondo me c’è un minimo di codice etico, ci sono delle cose che non dovremmo superare.
Magari sarò un estremista ma ritengo che dobbiamo darci una regolata anche perché poi il consumatore ci guarda dice i prezzi sono i più bassi del mondo, 10 mila euro e il consumatore che non sa dice “ma come funziona qui, spiegami? Il marketing è interessante, quello ci ha speso 10 mila, perché mi alzi il prezzo del caffè?” È un discorso che solo noi capiamo e i consumatori ce li stiamo un po’ perdendo per strada con queste situazioni.
Ora, questi fenomeni qua, vi faccio vedere un piccolo riassunto (non so se l’avete visto questo, pubblicato da Mc-Donald’s UK) … quelli che san far business…eh dopo ci insegnano e la fase in cui siamo noi è questa qui.
Queste non sono opinioni, ma un dato di fatto.
Vi faccio vedere, forse voi in Italia non li seguite, i Bondi Hipsters. È un video con diverse parolacce, ho cercato di ridurle. Fanno la parodia del Closed Cafe cioè un café che è talmente esclusivo che è chiuso. Tu entri, loro ti cacciano, ti mandano a quel paese, se tu rimani lì passi il test e puoi prendere un cappuccino.
Questo è un pezzettino, dura pochi minuti ed è molto piacevole da vedere.
Perché ve l’ho fatto vedere? Perché l’atteggiamento nei coffee shop è questa. L’approccio nello specialty è stato: noi siamo troppo esclusivi che tu non sei buono per noi e molti consumatori si sono un po’ stancati, no?
Questo l’ho preso come esempio perché questi ci hanno fatto la parodia (in Australia sono strani eh) perché è un fenomeno che succede e dobbiamo saperlo come industria, come settore. Dobbiamo essere onesti: è una delle altre cose che può essere un pericolo nel lungo periodo.
Perché l’accessibilità è quello che ci porta dai consumatori non l’esclusività
All’inizio, quando si era pochi, tutti fighi, tutti giovani, così poteva anche andare bene come settore, come movimento, ma adesso questo è finito, quest’onda, parlando di onde, è andata a scemare.
Vado avanti, se no perdo troppo tempo. Lo specialty ha ancora spinta, attrae molti soldi, c’è un giro d’affari sicuramente importante, tante aziende, tante idee. Però questi sono i fattori che rischiano di dissolverlo. Vi do un mio punto di vista su quello che darà una nuova fase. Ma ripeto bisogna girare attorno agli scogli, le maree, le secche e arrivare sulla spiaggia.
Primo, secondo me, ci sarà una forte crescita del ready-to-drink in varie forme
La mia visione è che lo specialty uscirà dai coffee shop sempre di più e sarà sempre più disponibile di varie forme: il movimento del cold brew l’ha sicuramente provato.
Adesso esistono delle cold brew che estraggono veramente sapori molto precisi che riescono a stare sul banco per 120 giorni quindi comunque è diventato uno standard tecnico di riferimento. Oppure fiale dove io posso sciogliere acqua in campeggio, in aereo, posso bere un caffè buono anche in aereo oppure i sachets.
Se andiamo a vedere comunque, io non ho questa statistica e sarebbe un gioco divertente, dai primi anni 90 quanto caffè viaggiava in sacchetto macinato. E quanto caffè dagli anni 90 in poi ha cominciato a viaggiare in cialde, capsule, sachets, lattine, bottiglie.
In termini di packaging sarebbe una statistica interessante da fare perché ci fa capire dove sta andando il mercato.
Altra cosa: il coffee shop subirà la concorrenza di questi metodi di degustazione del caffè in posti remoti, per cui chi rimane in un coffee shop dovrà avere un percorso esperienziale nuovo, cioè ci deve andare per un motivo e il bancone secondo me è uno dei limiti.
Il bancone non può essere completamente abolito ma sicuramente ridotto a uno dei percorsi di esperienza.
Quindi chi disegna le macchine dovrà fare i conti con la caldaia e con l’architettonico: questa è una macchina che non aveva caldaia, è una macchina filtro con dentro un elemento in ceramica fatta a Cambridge nel 2012, andai a vederla di persona, della Luminaire che poi sono quelli che hanno lavorato con Marzocco per bilance e schede centralino (tre bravi ragazzi, tre bravi ingegneri), però questo a livello embrionale rappresenta secondo me il futuro: macchine senza caldaie e la scomparsa del bancone.
La professionalizzazione
Ne abbiamo parlato prima, cioè abbiamo imparato noi e insegnato agli altri come fare caffè sempre meglio e io penso che abbiamo raggiunto un livello mediamente tecnicamente buono, certo c’è tanto lavoro da fare ma per come era anni fa abbiamo migliorato tanto.
La cosa su cui secondo me bisogna lavorare è l’hospitality, sull’arte dell’accoglienza, dell’accessibilità all’esperienza che un consumatore sta per avere. Non possiamo essere auto referenziali o continuare ad esserlo.
E alla fine, per chiudere, la cosa che secondo me è fondamentale, è che le associazioni si uniscano per creare questi benedetti modelli economici di riferimento. Sia all’inizio sia alla fine.