MILANO – L’apertura del Giappone ai commerci, a partire dalla seconda metà dell’ottocento ha fatto sì che abbiano preso piede nel paese del sol levante, moltissime bevande sino ad allora sconosciute. E che queste bevande siano state reinterpretate alla nipponica, con un tocco in più che le ha, a volte, valorizzate. Ciò è valso per la birra e per il whisky. E, in tempi più recenti, anche per il caffè.
Questa l’interessante tesi sostenuta in un articolo di Anna Muzio per Il Giornale, di cui riprendiamo di seguito i passaggi salienti.
Che cosa bevono i giapponesi? Sakè, naturalmente, il liquore di riso tradizionale. Ma anche bevande qui ignote fino a fine Ottocento, quando, terminato il periodo Edo, il Giappone si riaprì ai commerci.
In termini di bevande in fondo è poco, se si considera che il vino ha 8mila anni e la birra forse anche di più. Ma queste bevande che riteniamo «nostre» qui si sono trasformate. Birra, whisky, caffè e acqua in bottiglia sono in vari modi stati reinventati e dotati di quel tocco che a noi, con la nostra grande tradizione che cerchiamo di disturbare il meno possibile, a volte manca.
È il concetto di Kaizen, unione di Kai (cambiamento) e Zen (buono, migliore), che potremmo tradurre con miglioramento continuo. Applicato all’industria manifatturiera in ginocchio nel dopoguerra, implica una cura del dettaglio e una ricerca dell’eccellenza che non ha risparmiato il mondo del bere.
Prendiamo la birra
Un prodotto antichissimo, ma tutt’altro che tradizionale in Asia. Gli olandesi, tra i pochi ammessi a commerciare nel Seicento dal porto di Nagasaki, qui la fabbricavano, ma i primi birrifici «nazionali» nacquero tra il 1869 e il 1876.
Producevano una birra di stile nordeuropeo a fermentazione bassa, una sorta di standard mondiale. Solo nella seconda metà del Novecento la birra decolla. E nel 1987, dopo anni di studi e ricerche la Asahi crea quella che è oggi la super premium più venduta nel Paese, la «Karakuchi», che significa, nella asciutta succintezza di due eleganti ideogrammi, «gusto secco». Pulisce il palato e si abbina idealmente con il cibo giapponese. E ora si sta affacciando nell’alta cucina internazionale.
Emblematico anche il caso del whisky
Entra nel Paese nell’Ottocento ma la prima distilleria che lo mette in commercio è la Yamakazi, nata nel 1923 nell’indifferenza del resto del mondo. Però l’acqua locale, dolce e quasi priva di minerali, è usata da secoli per infondere tè eccellenti. Il lungo periodo di oscurità è rotto negli anni 2000 quando due whisky dei maggiori brand, Nikka e Suntory, vincono due competizioni internazionali.
Merito di un rispetto della tradizione scozzese che ormai non si trova più neppure in Scozia: in ogni botte si cerca di migliorare un prodotto che ha già raggiunti livelli altissimi.
Troppo alcol vi sta dando alla testa?
Allora passiamo al caffè che in Giappone non si coltiva ma si beve. Preferibilmente filtrato. In tutti i modi, in lattina o dalle onnipresenti macchinette distributrici. O meglio nelle tradizionali kissaten, la prima delle quali aprì a Tokyo nel 1888, o nei nuovi locali specialty.
Accomunati da una ricerca spasmodica della qualità e dell’estrazione perfetta, che avviene davanti al cliente, curatissima. Come fece per 60 anni Sekiguchi Ichiro proprietario del Café de L’Ambre di Tokyo, scomparso l’anno scorso a 103 anni che dal 1948, tutti i giorni serviva solo caffè e tostava con attrezzi tradizionali, sempre gli stessi.
Infine, l’elemento che accomuna tutti gli altri, l’acqua. A questo punto non vi sorprenderà scoprire che cavalcando la moda delle acque di lusso non nuova ma inspiegabilmente intramontabile due delle più care del mondo sono proprio giapponesi.
Stiamo parlando della Fillico Jewelry dalla bottiglia gioiello, 616 dollari al litro, e la SuperNariwa, nata da una sorgente di roccia vulcanica naturalmente magnetica che pare allunghi la vita. La minibottiglia da 10 ml costa quasi 100 dollari. In questo caso più che di eccellenza dovremmo parlare di marketing. Ma questo, in fondo, è Shoganai, ciò che non può essere evitato e avviene al di fuori del nostro controllo.
Anna Muzio