MILANO — È legittimo l’accertamento analitico-induttivo con il quale l’Ufficio ha ricostruito indirettamente i ricavi di un bar caffetteria.
Avvalendosi dell’unica presunzione consistente nell’impiego di 8 grammi di miscela di caffè acquistato dall’imprenditore per la preparazione di ogni singola tazzina servita ai clienti.
È questa l’importante conferma giunta dalla Cassazione, con l’ordinanza n. 10207/2018. E’ ribaltato così un recente arresto sempre di legittimità.
Ricavi dei pubblici esercizi: aiutano gli accertamenti
Il presupposto normativo sul quale l’Agenzia delle Entrate opera per procedere all’accertamento analitico-induttivo risiede nell’art. 39, comma 1, lett. d), ultimo periodo del DPR 600/73.
Accertamento che consente, tra l’altro, agli Uffici di determinare le attività non dichiarate dal contribuente anche sulla base di presunzioni qualificate.
Ovvero quelle munite dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. (analogamente dispone l’art. 54, comma 2, del DPR 633/1972, ai fini IVA). Ciò anche qualora la contabilità risulta formalmente regolare. (ex pluris, Cass. nn. 7838/2015 e 25284/2015).
Tali presunzioni possono anche consistere in un unico elemento presuntivo grave e preciso (tra le altre, Cass. n. 3276/2018). Così come può essere il consumo di una materia prima impiegata per produrre un determinato prodotto servito nell’ambito di un esercizio commerciale pubblico di somministrazione di pasti e alimenti.
Da ciò, gli Uffici ricostruiscono frequentemente i ricavi di tali esercizi (soprattutto bar, pizzerie e ristoranti). Partendo proprio dalla determinazione del quantitativo annuo di una data materia prima utilizzata dall’imprenditore. Dividendolo, poi, per la quantità necessaria per la produzione di un singolo bene; per giungere in conclusione, al numero complessivo di tali beni serviti in un anno ai clienti.
Quindi, tramite valorizzazione al prezzo medio, all’ammontare complessivo. O quantomeno parziale (se sono presenti più prodotti) di ricavi conseguiti dall’imprenditore in tale anno d’imposta.
La legittimità di tale metodologia accertativa
E’ stata ribadita costantemente dalla Cassazione in una pluralità di sue declinazioni. Ancora di recente, i giudici di legittimità hanno stabilito che l’accertamento induttivo, per quanto riguarda i ristoranti, può fondarsi sia sul numero dei tovaglioli portati in lavanderia – che sono indici di coperti e quindi di incassi – sia sul consumo di acque minerali o di altre bevande.
Costituendo elemento fondamentale, se non addirittura indispensabile, nelle consumazioni erogate dal ristoratore (Cass. n. 17408/2010).
Così come il consumo del vino costituisce un fatto noto dal quale può logicamente desumersi il numero dei pasti effettivamente servit. Cioè il fatto ignoto (Cass. n. 1103/2017).
Sul “tovagliometro”
La Suprema Corte si è sempre pronunciata a favore del suo legittimo utilizzo da parte del Fisco (tra le altre, Cass. nn. 51/1999, 6465/2002).
Pur precisando che dal numero complessivo di tovaglioli desunti dall’Ufficio per determinare il numero di pasti erogati si deve sottrarre una certa percentuale di tovaglioli normalmente usati per altri scopi, quali i pasti dei soci e dei dipendenti; l’uso da parte dei camerieri e le evenienze più varie per le quali ciascun cliente può essere indotto a utilizzare più tovaglioli – c.d. percentuale di sfrido (Cass. n. 20060/2014).
Superato un recente arresto della Cassazione
Del resto, per la Cassazione è legittimo ricostruire i ricavi di un’impresa di ristorazione anche sulla base del solo consumo di acqua minerale.
Fermo restando che nel settore della ristorazione non vi è un indicatore “principe” per la ricostruzione presuntiva dei ricavi. Ben
potendo gli indici rivelatori variare da caso a caso: Essendo poi compito dell’Ufficio finanziario prima, e del giudice tributario di merito poi, quello di cogliere i peculiari nessi inferenziali che siano adeguati alla singola fattispecie concreta (Cass. n. 11622/2013).
Un po’ più articolata si presenta la questione relativa all’accertamento analitico-induttivo nei confronti di bar e caffetterie sulla base del consumo del caffè
Perché, a differenza di ristoranti e pizzerie per cui si considera un elemento unitario della materia prima, come una
bottiglia di acqua o un tovagliolo, la tazzina di caffè servita al bar presuppone un determinato quantitativo di miscela di caffè acquistata dall’esercente. Quindi, non un elemento unitario.
Da qui la problematica circa la valutazione dei grammi di miscela di caffè necessari per servire una tazzina. (che è poi quella che serve all’Ufficio per valorizzare i ricavi con applicazione del prezzo al pubblico).
Soprattutto, il problema della capacità probatoria di tale presunzione (per ogni tazzina servono, ad esempio, 7 grammi di caffè) di sorreggere una pretesa impositiva così formata.
La sentenza n. 25482/2013
Con essa, la Cassazione ha confermato la legittimità di una ricostruzione basata sul consumo di miscela di caffè. Assumendo un quantitativo di materia prima pari a 6-7 grammi per tazzina, desunta da dati statistici medi (nello stesso senso sembrerebbe porsi anche Cass. n. 25093/2014).
Invece, con la pronuncia n. 10204/2016 ha stabilito, all’opposto, che il quantitativo di caffè necessario per servire la tipica tazzina da bar, così come il ricarico medio applicato da quest’ultimo sui prodotti rivenduti, non costituisce un fatto notorio e, pertanto, il Fisco non può basarsi su di esso per la ricostruzione induttiva dei ricavi.
La pronuncia in commento
Attraverso questa, però, la Suprema Corte ha nuovamente confermato la legittimità di un accertamento a carico di un bar, fondato sul consumo di miscela di caffè, assunto nella misura di 8 grammi per tazzina servita.
Stabilendo, peraltro, che spetta al contribuente superare tale presunzione di consumo, provando di aver impiegato un quantitativo diverso per servire le tazzine di caffè.
Alessandro Borgoglio