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domenica 17 Novembre 2024
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Il convegno sul futuro del caffè in Italia organizzato dal Consorzio promozione: i professionisti si confrontano

Un'altra sessione di domande e risposte che sono state poste durante la giornata dedicata al mercato del caffè al convegno tenutosi presso il Campus Simonelli Group

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BELFORTE DEL CHIENTI (Macerata) – La discussione resta aperta (la prima parte è consultabile a questo link) dopo i diversi interventi (qui, qui, qui, qui, e qui) che hanno animato la prima parte della giornata del convegno organizzato dal Consorzio promozione caffè: nel campus Simonelli group, i professionisti si sono potuti confrontare ciascuno con i propri dubbi, di fronte agli esperti di comunicazione, management, horeca.

L’intervento di Paolo Borgio:

“Sono d’accordo sul fatto che il caffè al bar sia una commodity, un prodotto indifferenziato. È diverso però in grande distribuzione. Il caffè è una delle merceologie più deboli e le aziende di marca riescono a vincere la competizione meglio di quelle non di marca.
La ragione per cui il caffè è una commodity a mio parere sta nel fatto che negli ultimi 40 anni, la crescita del caffè e al bar e il loro stesso numero, è stata molto sovvenzionata dai torrefattori che non hanno parlato però tanto di qualità, ma di sconti anticipati, di finanziamenti, di comodato d’uso, di attrezzature.
Ed è sempre stata questa la leva di successo per conquistare un bar rispetto a un altro concorrente.
Negli ultimi dieci anni tanti torrefattori hanno lavorato con la qualità, ma questa cosa non è arrivata in maniera massiccia alla distribuzione e poi al barista.
Il quale ha assorbito questa filosofia e la trasmette a sua volta. Per me un torrefattore vale l’altro, dipende da quanto sconto anticipato e finanziamento mi dà e se è possibile poi fregarlo comprando il caffè al supermercato e pagarlo la metà.
Visto che siamo una platea di B2B dobbiamo cercare di fare in parte un mea culpa e trovare delle soluzioni virtuose in tal senso.”
Finzi: “Tutto vero. Personalmente credo che quel tipo di dinamica fosse necessaria per far crescere il mondo del bar e sostenerlo. Ora basta. Credo sia possibile fare quel passaggio in cui non è più soltanto una questione finanziaria ma diventa altro, a vantaggio di tutti. Chi vende adesso birra guadagna di più, perché tutto è salito e non guadagna solo l’industria che vende IPA, ma anche gli stati intermedi.
E’ stato necessario, possiamo rivedere gli stessi rapporti in modo diverso. Il cash and carry esiste purtroppo e bisogna cercare di evitarlo, ma c’è spazio per cambiare la mentalità. Qualche anno fa, nel mondo della birra non ci si credeva che si sarebbe arrivati ad un cambio del genere all’inizio e ci sono ancora passi da fare. Ma se iniziamo a crederci noi per primi, è già il primo passo.”

Il professor Gregori:

“Bisogna innanzitutto creare la torta e poi far capire come partecipare alla torta, per risolvere le problematiche. Voglio fare un esempio da consumatore e battitore autostradale. Ogni tanto quando ci si ferma, si va e si vuole qualcosa che cosa costa di più, ma chi serve butta il prezzo lì senza farci capire. Per le mie esperienze, chi ci accompagnava, non ne capiva neppure il valore. Dobbiamo formare anche chi sta a contatto con il cliente, sennò il messaggio non arriva.”
Giovanna Stucchi, dal pubblico, pone il focus sul consumatore finale che va formato. Non è l’azienda a doversi informare, perché sa già cosa fare per gli anni di esperienza alle spalle. Il consumatore deve decidere.

Come si fa ad educare il consumatore? Ci vuole la forza di chi ha capitale ed è un’industria. Ci vuole il contributo di tutti.

Dalla sala: “Parliamo di potere all’interno di canali. Mi viene in mente l’esempio delle batterie delle auto. Gli automobilisti più o meno sanno che c’è una batteria dentro l’auto, ma non sempre c’è la stessa conoscenza nell’altro genere. Detto questo, chi decide cosa farci, è l’elettrauto: il cliente porta la macchina e demanda la scelta a dei soggetti influenzatori che determina il mercato. Il problema è capire come faccio a portare dalla mia parte con la logica di consumer per migliorare la posta per tutti. Il tema della formazione è fondamentale, insieme agli obiettivi chiari e la strategia.”

Michele Cannone: un contributo prospettico alla conversazione

“Due considerazioni: lavoro nel mondo del caffè e ho lavorato anche nel mondo della birra. Ma i principi dei sistemi di finanziamenti sono stati spinti anche da parte dei birrai non soltanto in Italia ma nel mondo. Quindi il contesto da analizzare è più complicato.
Innanzitutto il caffè è una categoria giovane. Sembra paradossale ma è così. Il caffè che oggi descriviamo buoni, puliti e giusti hanno 50 anni di vita. Fino agli anni ’70 veniva classificato in base a una serie di difetti, poco si diceva sulla provenienza, sulla qualità. 50 anni nel mondo del food sono nulla, dal punto di vista culturale.
Si parla del mondo del vino e della winification: in realtà qualche secolo fa i francesi mettevano i paletti nei loro campi e noi italiani eravamo contenti quando raccoglievamo qualche grappolo d’uva.
In Italia la rivalorizzazione del food è un tema fortissimo. Tant’è che se oggi vediamo i ricavi medi sulle categorie in cui i francesi operano, sono nettamente più bravi di noi.
Dico questo perché credo che i fattori di discontinuità siano i modelli esperienziali. Non dispensiamo quelli primari, qualcosa che piace o non piace, al di là del primo caffè la mattina, siamo ormai in un contesto in cui si possono soddisfare in altro modo.
Il tema dei principi dei modelli esperienziali è semplice: la categoria si è ringiovanita quando si sono aperti i punti vendita specializzati nel fuori casa che hanno fatto vivere ai consumatori storie diverse.
Abbiamo citato la birra e io ancora dissento un po’ con il modello: ma anche questo mondo, i modelli culturali che si sono sviluppati, sono nati da quella dinamica. Negli anni ’70 c’erano le prime birrerie specializzate con seimila birre, poi sono arrivati i pub, poi sono nate le micro birrerie che sono fallite e ora stanno tornando. Ci sono stati almeno 4 momenti negli ultimi 40 anni in Italia.
Nel caffè siamo ancora nell’anno zero. Il tema dei principi educativi: oggi nascono da modelli esperienziali e quindi da retailer specializzati che raccontano qualcosa. Non so se ci sono i presupposti economici perchè questo possa accadere in Italia e dare loro continuità.
Guardando prospetticamente al futuro, condivido il fatto che in realtà non esiste la grande o la piccola azienda: i modelli culturali si diffondono attraverso soluzioni capillari di rapporto. Credo che l’Italia sia ricca di virtù, ma sicuramente la capacità di fare rete network è tra i grandi punti di opportunità.
La nostra individualità non sempre viene messa a servizio comune. Penso che una delle grande sfide, dei punti da chiarire, sia come portare avanti un modello esperienziale che può fare cultura del caffè partendo da quella che è la nostra realtà italiana. Credo che questo possa esser un ruolo giocato da una comunità allargata.”

La capacità di fare networking: c’è ancora da lavorare su questo?

Professor Gregori: “In generale, per esperienza, ho lavorato con le piccole imprese e le ho difese, insegnando tramite l’Università e riconosco loro l’impegno, la fatica, la dedizione, considerare il personale come la famiglia. Tutti valori che sono da riconoscere.
Dal punto di vista delle carenze, in termini di marketing, di strumenti gestionali, ce ne sono tante. Ma l’aspetto collaborativo è un altro delle forti mancanze. Raramente le metti insieme.
Cito un esempio: grazie ai finanziamenti abbiamo fatto partire dei contatti a rete, che sembravano essere una grande strategia del governo per far mettere insieme le piccole imprese sui progetti tramite finanziamenti.
Dove si vedeva una possibilità: nella filiera. Che per me rappresenta ancor più del distretto, una possibilità ulteriore. Al suo interno potrebbe esser interessante costruire delle aggregazioni, per avere più potere, più forza e poter interfacciarsi e ragionare.
Nello studio della Grande distribuzione, possiamo fare una riflessione: se noi andiamo a vedere cosa è successo in questo canale, questa è partita con il non alimentare. I grandi magazzini erano tipicamente non alimentari. Perché poi gli alimentaristi hanno creato gruppi di acquisto, si sono messi insieme in cooperative? Perché c’era un’opportunità di business.
In questo vedo una speranza. Le problematicità portano a soluzioni. Ragionare insieme su strategie interconnesse per affrontare insieme i mercati, i fornitori, potrebbe essere un’occasione. Un po’ di preoccupazione certo ci vuole. Ma il matrimonio, alla fine, si fa: uno che ti sposa, lo trovi.
Il problema non è fare il matrimonio, ma è poi gestirlo. Fare in modo che sopravviva. Come farlo? Impostandolo prima. Se c’è una strategia dell’accordo a monte. Se si cerca un partner, è importante avere in chiaro la strategia e organizzativamente come si vuole fare.”

Una dipendente di Segafredo lancia una riflessione e una domanda da parte di chi lavora all’estero e ora torna in Italia.

Sabrina Pastano: “Prendendo spunto dall’intervento di Andrej Godina: siamo schiavi del prezzo del caffè, non riusciamo ad inserire più di una miscela, a raccontarla, ad ottenere l’interesse del consumatore -. Anche quando il torrefattore riesce a trasmettere tutto questo al commercializzatore, questo poi non riesce poi a condividerlo. E infine, non siamo disposti a fare formazione.
Perché in Italia, la casa del caffè, all’estero siamo famosi per l’espresso che è nato qui, non riusciamo a fare quello che succede fuori dai nostri confini? Quali sono le strategie per allinearci al resto del mondo?
Cosimo Finzi: “Bisogna distinguere tra il perché si è creata la situazione e poi il come uscirne. Siamo andati a lungo in queste situazioni e ora si è fossilizzata, ora è difficile cambiare. Ora, dire a 10 persone che per un caffè di qualità superiore al bar si deve pagare 3 euro, vuol dire finire a botte. Quindi il problema c’è e ce lo siamo un po’ creati in un contesto che aiuta il consumatore a non dare valore a ciò che mangia e beve.
Come uscirne? Sono stati fatti dei tentativi: bisogna farne di più e collettivamente. Ad esempio, nella giornata del caffè, i bar che vogliono partecipare, devono promuovere e raccontare il loro caffè, mettere per qualche giorno una miscela in più, raccontare e organizzare eventi per strada, fare degustazioni.
In Italia ci sono tante persone che fanno chilometri per andare a bere una certa birra e un vino particolare. Questo succede: pensate al turismo legato al vino, che è impressionante. Iniziamo a raccontare, andando avanti a testa bassa. Non ha funzionato? Funzionerà.
Se non si va avanti con ancora più convinzione e unione – si deve fare tra tutti gli attori, medi, grandi, piccoli della filiera – non sarebbe possibile.

Ci dovrebbero essere una serie di giornate in cui raccontiamo il caffè. Vieni, prova, assaggia, annusa.”

Ma non c’è anche un fattore tempo nel bere il caffè? Uno lo consuma subito e in fretta

“Se dedicassimo al caffè invece che appena 7 secondi, 40, staremmo chiedendo soltanto un po’ di più del tempo al consumatore per annusare e degustare, non un investimento enorme. Anzi, stiamo offrendo qualcosa in più. Perché quando impari a bere il vino bene, sei tu il primo a goderne. Questo a patto di saper sentire meglio il caffè. Proviamo a chiedere ad un italiano com’è un caffè? Oggi il cittadino medio non riesce ad avere descrittori di gusto e olfattivi sull’espresso. Iniziamo a raccontare di più questa cosa e fare esperienze.”
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