MILANO – Un sondaggio Nespresso definisce il caffè uno status symbol. Secondo il Guardian, i coffee shop prosperano mentre tantissimi pub chiudono a causa della crisi. Se la regina avesse mai voglia di fare una capatina fuori dai palazzi reali per andarsi a sorseggiare un flat white o un caramel cappuccino – osservava 2 settimane fa nel Guardian Rupert Neate – non avrebbe che l’imbarazzo della scelta.
Soltanto nel breve tratto di strada che separa Buckingham Palace dalla stazione di Victoria, infatti, ci sono ben 21 caffetterie. Il fenomeno non riguarda soltanto i paraggi della residenza reale.
Coffee shop sono sempre più una presenza costante nelle vie eleganti della capitale, come nelle arterie di tutto il paese
Il record va a Holloway Road, nel nord di Londra, con 24 locali, che sopravanza di poco Gloucester Road, a Bristol, con 22 esercizi (dati Local Data Company). Le caffetterie a marchio in Uk sono in tutto 5 mila e hanno servito l’anno scorso 2 miliardi di caffè. Se aggiungiamo circa 5.500 caffetterie indipendenti e circa 5 mila corner creati all’interno di negozi, pub, aree di servizio autostradali ecc., arriviamo a un totale di oltre 15 mila locali dove è servito l’espresso. E il loro numero – a detta degli esperti – è destinato ad aumentare ancora.
Secondo il noto analista Allegra Strategies, tra pochi anni ci saranno non meno di 7 mila caffetterie a marchio e un totale di quasi 18 mila locali calcolando anche i pubblici esercizi indipendenti e non specializzati. Tanto che i coffee shop di nuova apertura compensano ampiamente i pub in chiusura a causa della crisi. “E dire che – osserva il direttore esecutivo di Allegra Jeffrey Young – quando uscì il nostro primo report, nel ’99, consideravamo allora il mercato già saturo, con appena 700 caffetterie”.
I padri della “coffee revolution” made in Uk sono – secondo il Guardian – i fratelli italiani Sergio e Bruno Costa, che aprirono il loro primo bar in Vauxhall Bridge Road (anche in questo caso, non lontano da Buckingham Palace) nel 1971. Costa Coffee conta oggi in terra britannica 1.500 locali, per un totale di 450.000 di tazzine servite quotidianamente. E secondo Andy Harrison – ceo di Whitbread (il colosso dell’ospitalità che ha rilevato Costa nel 1995), il numero potrebbe salire a 2 mila nel giro di pochi anni. Prova ne sia che i progetti a breve prevedono 350 nuove aperture entro marzo 2013, con la creazione di 3.500 nuovi posti di lavoro.
Oro colato, in tempi economicamente depressi
Molte delle nuove caffetterie sorgeranno a un tiro di schioppo da altri locali della stessa insegna già esistenti e operanti. “La gente non ha voglia di fare tanta strada per un caffè – spiega ancora Harrison – in una via molto trafficata di una grande città, ad esempio, possiamo aprire tranquillamente due locali a distanza di poche centinaia di metri l’uno dall’altro. E poi un altro in un centro commerciale e un altro ancora all’interno di una stazione”. Va meno bene a Starbucks, che ha intrapreso quest’anno un radicale make-up volto a rendere la sua immagine più “British”. Oltre a ritoccare il logo, la catena americana, in ossequio ai gusti locali, ha raddoppiato la forza dell’espresso e delle altre bevande e personalizzato il servizio.
La clientela sembra gradire, visto che le vendite settimanali sono aumentate del 9% da quando questi cambiamenti sono stati introdotti. Come si spiega il perdurante boom delle caffetterie anche in grami tempi di recessione? Secondo Harrison, il merito è della popolarizzazione dell’espresso, che ha trasformato la pausa per il caffè al bar in un’abitudine quotidiana anche per i sudditi di sua maestà britannica. Popolarizzazione che va però di pari passo con una sempre maggiore consapevolezza del consumatore, molto attento oggi anche alla provenienza del caffè e al modo in cui viene lavorato, torrefatto e macinato. Un trend di consumo che fa la fortuna delle piccole torrefazioni artigianali.
Come Monmouth Coffee, vicino al London Bridge, vera mecca per gli amanti dei caffè speciali. Il sabato mattina, il locale viene letteralmente preso d’assalto da una folla di coffee lovers disposti a rimanere in coda anche per più di un’ora, pur di poter assaggiare e acquistare miscele e monorigine selezionati. Ma come osserva lo stesso Neate, la rivoluzione maggiore riguarda il barista, figura professionale sempre più qualificata e stimata.
“È come quando i cuochi hanno smesso di chiamarsi cooks e hanno cominciato a chiamarsi chefs – conclude l’articolo citando le parole di Jeffrey Young – la parola cook, ormai, non viene più nemmeno usata. Una volta, i baristi si occupavano di tutto: dalle pulizie alla tenuta della cassa. Ora possono dedicarsi a tempo pieno alla preparazione del caffè. Una carriera nel campo della caffetteria è oggi un’opportunità concreta.
Coffee shop come le enoteche
Questo la considerazione saliente che emerge da una recente indagine commissionata da Nespresso Uk, i cui risultati sono stati diffusi alla vigilia dell’inaugurazione nuovo flagship store, che apre i battenti in questi giorni in Regent Street, nel cuore del West End londinese. Dalle risposte, un prima considerazione importante. Quasi la metà degli intervistati (45%) considera il caffè una bevanda di maggior prestigio rispetto al tè (appena 1 su 10 ritiene il tè superiore al caffè).
Il caffè è la bevanda per eccellenza in situazioni conviviali: oltre il 60% dei britannici preferisce ordinare un espresso piuttosto che un tè quando incontra gli amici in un locale. E quasi un terzo di coloro che bevono caffè abitualmente sostiene di non poter fare più a meno di questa bevanda. Anche a casa, l’inglese medio cerca di riprodurre la miglior esperienza possibile di consumo. Al rito domestico del tè si sostituisce il rito del caffè. Ben il 52% degli interpellati dichiara infatti di dedicare una cura maggiore alla preparazione del caffè che non a quella del tè. E di prestare inoltre un’attenzione superiore alla scelta del prodotto al momento dell’acquisto.
Secondo il professor Charles Spence, docente di psicologia sperimentale a Oxford, l’esplosione della cultura del caffè, tanto a livello domestico quanto nelle caffetterie alla moda, è simile a quella avvenuta nella cultura del bere, dove si è passati dal consumo di un tempo di vini come il Lambrusco o lo Chablis, alla sofisticata cultura enologica attuale. Sorprendentemente, la fascia di età che dimostra una maggiore conoscenza della bevanda è quella dei giovanissimi: un quarto degli intervistati di età compresa tra i 18 e i 24 anni di età afferma, ad esempio, di conoscere meglio il caffè che il vino. E ancora, un terzo di essi dichiara di essere in grado, ad esempio, di abbinare correttamente i vari tipi di caffè. Un’ulteriore connotazione importante riguarda il prestigio sociale delle bevanda. Oltre i tre quarti (77%) dei senior manager facenti parte del campione sostiene di preferire il caffè al tè durante i meeting con i colleghi o i clienti. E gli intervistati che si autodefiniscono “ambiziosi” hanno un consumo di caffè una volta e mezza superiore rispetto alla media. Quasi i quattro quinti delle persone ad alto reddito – si legge ancora nell’indagine – considerano il caffè come indispensabile alla loro produttività. Da osservare infine che i top manager dimostrano una propensione maggiore per le bevande più forti (espresso e cappuccino), sebbene il cappuccino si confermi, trasversalmente alle classi sociali, la bevanda preferita dai britannici