MILANO – Mauro Cipolla è un esperto super della tazzina, con 40 anni di esperienza nel settore, dall’estero all’Italia ha visto questa bevanda evolversi e adattarsi a diversi scenari e lavorazioni. I cambiamenti di consumo, le nuove tendenze e anche la tradizione, sono tutti temi su cui si è più volte espresso e adesso, torna a pronunciarsi rispetto ad alcune posizioni che altri caffesperti hanno preso pubblicamente in relazione al contesto della ristorazione in Italia.
Un argomento delicato quanto dibattuto, soprattutto negli ultimi tempi, proprio perché rappresenta per molti un’opportunità per la crescita del comparto verso un pubblico più ampio e consapevole. Leggiamo che cosa ha da dire a riguardo, l’esperto.
di Mauro Cipolla
“Ultimamente ho letto delle inesattezze sullo stato del caffè nella ristorazione italiana. Non mi è chiaro se alcuni articoli vogliano proporre notizie sensazionali oppure riportare informazioni sul reale stato del settore. Se l’intenzione è quella di fare vero giornalismo, con la diffusione di informazioni che rispecchino i mercati come vissuti da chi scrive (piuttosto che come interpretati dai cosiddetti tuttologi, che hanno pochissima esperienza diretta del settore descritto, oppure si basano sulla letteratura accademica teorica o ancora su documentari televisivi) allora chi si espone dovrebbe aver fatto gavetta nel mondo caffè/ristorazione.
Insomma, molti degli autori di reportage dovrebbero aver lavorato, con le mani in pasta per decenni nel campo che vogliono commentare, prima di descrivere situazioni non veritiere o parziali, per comodo o per lanciare uno scoop.
La realtà è che la situazione del caffè espresso nella ristorazione non è sempre così disastrosa come viene dipinta, anzi
In alcuni ristoranti dove i titolari tengono al caffè espresso così come al cibo e al vino, l’espresso che si beve è molto meglio che nel 99% di quello che si può trovare nei bar e anche in molte caffetterie.
Attenzione: caffè espresso, e non filter coffees o moka. Questo è un altro discorso e ci torneremo dopo.
Intanto, non tutti i ristoranti possono avere un approccio alla bevanda con lo stesso posizionamento di mercato o strategia. I peggiori caffè si bevono sia nei locali dove il caffè non conta affatto e costa un euro – se non ancora peggio, è gratuito – sia in quelli stellati in mano a nomi importantissimi e rispettati nella cucina. In questi super ristoranti si vendono proposte di caffè anche a prezzi esorbitanti, nonostante l’esperienza e la conoscenza della bevanda sia poco approfondita.
Quindi la qualità scadente del caffè nella ristorazione esiste in entrambe le realtà che ho descritto, dove si gioca al ribasso e allo stesso tempo al rialzo in termini di immagine e di prezzo.
Cipolla: Il problema del caffè nella ristorazione è da una parte complesso e dall’altra è molto semplice
I ristoratori che si concentrano sul diffondere la cultura e l’eccellenza attorno alla tazzina sono quelli che hanno passione per la materia prima. Vedono nell’espresso un’opportunità non legata ad uno specifico marchio o alla sponsorizzazione finanziaria da parte del torrefattore, ma al contrario che vogliono essere liberi di scegliere e di offrire un prodotto non solo che piaccia a loro.
Vogliono servire una bevanda che faccia far loro bella figura alla fine del pasto, che non rovini il loro operato, che si abbini al cibo (Coffee e Food Pairing, lo scrivo da 40 anni) e
che si abbini alla persona (Coffee e People Pairing, anche questo lo scrivo e lo insegno da 40 anni).
In sintesi, il caffè buono, molto buono si beve nella ristorazione ricercata
Quella che investe nell’olio, nel pane, nella pasta, nei vini particolari, nelle diverse acque, e quindi anche nei caffè. Detto questo, la premessa resta ancora una volta nella libertà del ristoratore di scegliere cosa servire, e credetemi, più si sale in alto e meno molti di questi professionisti possono restare autonomi nella selezione. E la stessa non libertà non c’è soltanto sul caffè.
Alcuni scelgono il caffè come sponsor finanziario per affrontare tutti quei costi fissi importanti da coprire. Altri perché alla fine si instaura un discorso di tipo commerciale, legato all’obbligo e alla volontà di guadagno basandosi più sui fornitori e sulla propria immagine piuttosto che solo sul business della ristorazione – inteso come la somministrazione di prodotti e servizi tramite i quali ci si differenzia e si fa innamorare i propri clienti.-
Cipolla: A questo proposito rivelo un aneddoto
In passato sono stato approcciato, e diverse volte, da alcuni giornalisti del settore. Pochi, poiché la gran parte di questi professionisti settoriali sono molto seri. Nella vicenda specifica a cui mi riferisco ne ho incontrato di non particolarmente corretti: mi hanno proposto di vincolarmi automaticamente tramite le loro conoscenze ad una clientela molto particolare nella ristorazione, se avessi voluto, trovando il modo di far funzionare il tutto economicamente per tutte le parti coinvolte. Naturalmente non ho mai accettato.
Quindi il primo problema è che il ristoratore deve imparare a fare affidamento di più su se stesso e sulla propria passione per il mondo del caffè, e meno a quello della finanza o di alcuni giornalisti che gli propongono dei vincoli a prodotti con marchi specifici.
Il secondo problema è che molti ristoranti fanno pochi volumi di caffè venduti e invece hanno molti operatori per prepararlo
Questo significa che anche se il caffè fosse eccelso, comunque invecchierebbe. Avere troppe persone che lavorano alla macchina e con o poca o tanta formazione, comunque pone un problema per la qualità e la costanza, proprio perché statisticamente molte persone che fanno pochi caffè risentiranno sempre di una grande variante qualitativa tra un operatore e l’altro.
D’altro canto il torrefattore non potrà mai dare una macchina e un macinino importanti ad un ristorante che gli propone, per esempio, un massimo di 50 caffè al giorno.
Quale torrefattore darebbe in comodato d’uso una La Marzocco GS3 e un macinacaffè Vulcan on demand o simili investendo svariate migliaia di euro in macchinari in
comodato d’uso con un volume così basso? Ben pochi, e io rientro tra questi.
Il ristoratore d’altro canto raramente pagherebbe per una macchina di tale importanza. Anche se ho diversi clienti che hanno investito in macchine e macinini importanti: mai dire mai, dipende dalla persona.
Oltre a questo, molti ristoranti hanno macchine a due o tre gruppi. Troppo grandi per l’effettiva necessità del locale, troppo onerose da mantenere e francamente anche fuori luogo.
Molti hanno vecchi modelli degli anni ’60, anche tenute bene per la gran parte. Certo quasi tutte montate male, con settaggi di temperature troppo alte per trattare i caffè di altissima qualità e spesso con macinini con il vecchio dosatore con caffè pre macinato ossidato al loro interno.
Quindi caffè sovraestratti, ossidati.
Il personale, i baristi, devono essere formati in modo articolato e preciso, ma con il turn over che esiste nella ristorazione, con il poco volume e pochi ricavi nel caffè nei ristoranti, con l’ottica che l’espresso per alcuni ristoratori deve essere soltanto un servizio, ecco che molti non vogliono investire in formazione per la preparazione della bevanda.
Figuriamoci se la vogliono pagare adeguatamente o se hanno tempo e voglia di andare a fare dei viaggi in piantagione. Sarebbe fantastico, ma chi propone queste attività al ristoratore non capisce il contesto in cui lavora e le giornate caratterizzata dai loro mille problemi che non si trovano nelle caffetterie né per frequenza né per diversificazione.
Pensate che ad una caffetteria di rinomato valore nazionale, facente parte di una dei locali storici in Italia con circa 120 anni di storia, dopo aver portato il mio caffè e fatto formazione a 17 e più collaboratori, tutti con la massima professionalità nella ristorazione (poiché questa storica caffetterie ha anche un ristorante al suo interno), in appena tre mesi ho dovuto rispettosamente chiedere di cessare la collaborazione. Questo perché formare con cambiamenti continui il personale, e farlo in modo rilevante ed eccellente (vera e non di forma) risultava davvero impossibile.
Questo soprattutto accade con macinini on demand dove la regolazione della macinatura deve essere messa a punto con il dosaggio del caffè macinato
Esiste inoltre un problema di approvvigionamento: molti ristoranti non hanno caffè fresco. Lo ordinano con una certa cadenza, spesso per ammortizzare i costi della logistica, e non è consegnato settimanalmente, quindi non è appena tostato ed ha date di scadenza troppo in avanti.
Oltre a questo, esiste poi un problema di stoccaggio in magazzino o di conservazione in ambienti non idonei.
Pensate che molti ristoranti o tengono il caffè in cucina o comunque in ambienti molto caldi, dove il torrefatto rischia di avere assorbire gli odori, oppure vengono riposti al contrario in zone troppo fredde e/o umide.
I ristoranti che lavorano bene con il caffè, e ce ne sono tanti, in sintesi hanno macchine e macinini di loro proprietà e di grande manifattura, fanno una manutenzione ordinaria e straordinaria impeccabile, hanno solo 1-3 baristi molto ben formati e dedicati alla bevanda. infine, macinano fresco e conservano il macinato deposito nelle dovute condizioni.
Ovviamente questa tipologia di ristorante non acquista il caffè sul prezzo, non chiede di essere sponsorizzato dal torrefattore, non vende il caffè alla sua clientela sul prezzo.
Cipolla: “Offre un’esperienza anche sul caffè. Punto. Semplice.”
Un altro divario si verifica poi se il ristoratore propone l’espresso in grani piuttosto che in monoporzionato (cialda o capsula). Parto dal presupposto che solitamente le cialde e le capsule che si trovano, per la maggior parte dei casi, sono orrende. L’ideale sarebbe avere una cialda che si comporti meglio dei migliori grani e questo è certamente possibile.
Bisogna investire nel crudo, nella conoscenza della torrefazione, di cosa significhi produrre monoporzionato. Sia la cialda che la capsula sono un involucro: nel primo caso la differenza si gioca nella carta utilizzata (non preferisco le capsule né in alluminio né in plastica anche se le produciamo ai fini di sperimentare e non commerciali, se non all’estero e in numeri di
pezzi pressoché inesistenti e comunque per ricerca). Un contenitore che rappresenta il tuo operato a partire dalla scelta del caffè crudo, e quindi della materia prima, sino a come lo sviluppi in torrefazione.
E’ ovvio che con i consumi così bassi nella ristorazione, e con il problema della formazione, uniti a quelli per investire su macchinari importanti, e al consumo energetico delle unità di estrazione, fanno pensare al monoporzionato come migliore soluzione.
Insomma se potessimo avere una cialda stupefacente e costante, forse per la ristorazione sarebbe il massimo. Molti scelgono di mantenere il grano e con un consumo da 1 a 2 kg o poco più alla settimana di caffè espresso utilizzato: questo diventa davvero rischioso e non proponibile.
Vedo che alcuni stanno inserendo macchine di piccolissima taglia a grani con macinadosatori incorporati solo per dire che offrono grani macinati freschi. Salvo poi che la macchina non ha i requisiti tecnici sia in termini di stabilità termica che di pressioni e portata dell’acqua per rendere un ottimo risultato finale e il macinino incorporato spesso non ha i giri motori dovuti. Ha macine composte da metalli temperati male o con tagli lame non idonee, spesso non facilmente regolabili.
In più, i grani nella campana, essendo vicino a fonti di calore si riscalda, le macine non solo coniche o raffreddate, e così spesso tutto risulta tecnicamente errato. Tuttavia, l’idea che il grano ti faccia risparmiare soldi per ogni tazzina e spesso è più facile da proporre.
“Ho un caffè in grani macinato fresco e non una cialda…” e poi in tazza?
L’altro problema è che spesso i tecnici delle macchine tradizionali in grani installano i macchinari in malo modo, settando in maniera errata la pressione di rete in entrata in macchina e il controllo della stessa. Stesso discorso anche sulle temperature impostate, visto che procedono in funzione ai bar in caldaia e non considerando i valori idonei per un caffè espresso eccelso.
Inoltre spesso il controllo dell’acqua è affidato ad un addolcitore, installato scorrettamente, oppure non necessario o mal funzionante. Pochi effettuano controlli dell’acqua periodici per decidere come mettere a punto il tenore dell’acqua nel tempo o sin dalla prima installazione.
E la posizione?
Le macchine spesso si trovano in cucina. Che è il posto peggiore per le macchine da caffè e della stessa materia prima per mille ragioni. Soprattutto se in grani ma anche in monoporzionato.
Un altro problema sono le tazzine per tipologia e per temperatura.
A parte che molte sono lavate con detergenti che spesso influenzano la bevanda con il loro odore. Oltre a questo le tazzine o sono troppo calde (in stile napoletano) oppure troppo fredde. Le prime bruciano il caffè in caduta e non sono piacevoli al tatto e alle sensorialità.
Quelle troppo fredde creano uno shock termico con i lipidi e i gas che sostengono la crema e fanno decrescere la crema stessa, la tessitura, la struttura, il “gusto-aromaretrogusto” ( lo preferisco al flavore come terminologia tecnica in quanto per me flavore è inappropriato al caffè espresso e molto anglosassone in orecchiabilità.
Molti ristoranti oggi stanno proponendo tazzine molto stilizzate in forme tecnicamente errate per spessore dei materiali, convessità, rapporto di misure tra diametro alla base e in alto, altezza, apertura o svasatura sulla parte alta delle tazzine, appoggio per il labbro, ecc. e quindi non adatte sia al mantenimento degli aromi, sia alla persistenza e anche alla creazione e al mantenimento della crema appena versata in tazza.
I peggiori contenitori per il caffè espresso, sono le tazzine in vetro.
Sono esotermiche ed inoltre hanno un’immediata reazione con la crema facendola scendere immediatamente una volta versata in tazza. Aggiungo che il posizionamento della macchina
dovrebbe anche includere uno studio dedicato.
Serve pensare ai flussi di aria di passaggio perché le tazzine subiscono molti sbalzi di temperatura.
Solitamente suggerisco di mantenere la tazzine in uno scalda tazze chiuso in modo tale che le stesse non subiscano questi sbalzi di temperature dovuti anche a i flussi di aria.
Inoltre le tazzine vanno mosse spesso sui piani di riscaldamento, appunto per tenere le temperature costanti. Se l’azienda sanitaria locale permettesse, sarebbe opportuno appoggiare le tazzine con le basi rivolte verso il piano riscaldante.
Ma si potrebbero depositare le polveri in tazza. E non è considerato idoneo coprire le tazzine con alcuna forma di tessuto.
La distanza dai tavoli di servizio della macchina del caffè è un altro problema, soprattutto perché porta le persone a fare più caffè in una volta, abbassando la qualità del caffè in tazza, che deve essere fatto e servito subito, invece che rimanere fermo ad attendere di riempire il vassoio.
Infine il ristorante quante referenze dovrebbe offrire nel mondo caffè?
Una vecchia legge di economia utilizzata da sempre, recita che se da una parte il maggior numero di referenze determina un più alto posizionamento sul mercato e aumenta la consapevolezza e di conseguenza le possibilità di vendita, dall’altra più referenze ci sono più i costi si solleveranno e più si dovranno cercare dei mercati disposti ad ammortizzare e pagare queste spese.
Inoltre, più referenze si hanno a disposizione e più la freschezza del prodotto deperirà: in un ristorante che propone dalle 3 alle 9 referenze di caffè, con volumi limitati di vendita, da una parte promette diversificazione e qualità e dall’altra consegna solo marketing fasullo. Il caffè invecchierà, si ossiderà, in particolar modo se in grani, se in filter o in moka.
Diverso sarebbe fornire più referenze con il monoporzionato, anche se il confezionamento in ambiente controllato elimina solo una parte dell’ossidazione e non allunga invece il concetto di freschezza nel tempo come promesso.
Ora, in merito al caffè espresso tradizionale o specialty, e alla moka o ai filter nella ristorazione
Intanto l’espresso tradizionale italiano degli anni ’70 era per la maggior parte dei casi artigianale, tostato dal fresco e 100% Arabica, non Robusta. E questo per me è il caffè espresso italiano tradizionale.
In quegli anni era tutto in miscela perché storicamente si spera, composta da favolose singole origini e non di bassa qualità.
La monorigine per espresso è arrivato in Italia negli anni ’80 e ’90 come importato dal modo anglosassone da alcuni che chiamo “marchettari” che hanno lavorato in modo commerciale togliendo valore al caffè espresso di una volta. E quindi sono arrivate le prime carte dei caffè nella ristorazione, all’epoca spesso attratta da soluzioni più esotiche in monorigine e non dalla ricerca dei gusti diversi dalla cura di tostatura o dalla miscela come era tipico del caffè italiano eccelso di una volta.
Gli stessi marchettari di oggi propongono i caffè espresso in termini di terroir, tracciabilità, punti e punteggi senza pensare che la miscela è quella ricetta nobile che deve essere il risultato non solo della materia prima, ma anche della tostatura, del raffreddamento, nella miscelazione, dalla tracciabilità per ogni diversa tostata. Solo così si può mantenere il gusto pressappoco costante nel tempo mentre la natura cambia. Se lavori bene puoi ottenere un’acidità positiva e molto corpo con Arabica al 100%. Non devi e non sei tenuto a dover sottolineare l’acidità senza corpo dall’Arabica.
l filters e la moka nella ristorazione li vedo molto poco, e quando ci sono sono proposti in due modi diversi
Alcuni li offrono senza offrire l’espresso, a mio avviso perché non sono riusciti a proporne di qualità nella ristorazione.
Ambedue nella ristorazione inizialmente e a suscitano interesse perché sono diversi, si fa cultura diversamente e sprigionano aromi piacevoli se estratti bene. Ma ricordiamoci che non sono il classico espresso.
Se vado al ristorante da italiano medio, per abitudine e per cultura voglio il caffè espresso e non lo voglio troppo fruttato, troppo acidulo, che sa di rose e di bacche rosse. Preferisco sentori vicini al pane, al cioccolato, al cacao alla vaniglia, alla liquirizia. Sono italiano, non sono di Sidney, di Londra o di chissà dove. A casa datemi pure la moka o l’espresso o i filtri, perché no?
In caffetteria davanti ad un libro e un momento di relax un ottimo filter delicato floreale aromatico.
È questione di abitudini, di cultura. Gli italiani al ristorante vogliono il caffè espresso, ma lo vogliono eccelso, equilibrato. I nostri clienti ristoratori vendono 9 espressi per ogni moka o ogni caffè a filtro.
Bisogna infine tenere presente che il caffè a filtro richiede molto tempo nella preparazione
Questa preparazione crea interesse ma ha un costo. Comunque il cliente dopo le prime volte, ha visto, ha degustato e può decidere se concludere questa esperienza o continuarla perché contento e appagato. E allora procede a riacquistare. O viceversa, non lo è, e ritorna al caffè espresso buono.
La moka oltra al tempo e all’attenzione che richiede, spesso brucia il caffè che sono estratti da modelli in alluminio e non in acciaio inox 18/10 nè tanto meno con basi e filtri studiati per donare caffè puliti, non bruciati e sporchi nel gusto.
Moltissimi dei nostri ristoratori clienti non vivono nella preistoria e il loro caffè espresso lo vendono da euro 2.50 a 5.00. Prima di scrivere articoli sul presupposto di essere esperti, bisognerebbe lavorare sul campo per avere dati effettivi dati da, decenni di sacrificio e interesse, quello vero.
Smettiamola di scrivere in libertà oppure la qualità così dipinta ma non apprezzata dal consumatore anche se consapevole, se troppo marchettara, ci lascerà nel vuoto tra le proposte commerciali industriali travestite da artigiani e i quelle ad alti punteggi riconosciuti e pagati dai soliti pochi.
Infine ricordiamoci che in Italia, oggi, ci sono davvero tante caffetterie, tanti ragazzi e ragazze che hanno creduto nei caffè a filtro o negli specialty molto aciduli
E in quelli ibridi anche nell’estrazione tra il tradizionale e il filtro nei rapporti, che dopo aver creduto e investito, hanno chiuso le loro porte. Non sono riusciti a farcela perché il gusto che portavano avanti non ha incontrato il piacere culturale dei mercati consapevoli o non.
Mi piange il cuore a pensare a questi ragazzi che hanno investito anima e cuore in progetti che possono senza dubbio funzionare in città molto turistiche come per esempio Milano,
Firenze e Roma e vicino ai centri universitari ma che non hanno successo per la gran parte perché siamo in Italia non a Sydney.
Chi ha certamente guadagnato in tutto ciò?
Conclude Cipolla: Tutti quelli che hanno venduto formazione a tutti i livelli. Il ristoratore a differenza delle caffetterie non pagherà mai per questo passaggio che è stato venduto a caro prezzo invece ai giovani ragazzi e ragazze delle caffetterie italiane.”