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CAPSULE – Tutti i segreti svelati dall’interno

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Vi proponiamo un’intervista sul caffè, in particolare sui sistemi porzionati, con Luca D. Majer, Ceo di TUTTOESPRESSO srl

Sin dall’inizio della sua carriera Lei, Majer, ha lavorato nel caffè. Come ha iniziato?

Nel 1983 mio padre Aldo mi chiamò in Rhea Vendors, ditta che aveva fondato nel 1960. Io – che uscivo dalla Bocconi – avrei fatto volentieri un master negli USA ma mi gettai in Rhea anima e corpo. Uomo di finissima intelligenza, mio padre era un grande tecnico ma non amava il marketing di prodotto, che era invece la mia vocazione. Insieme, al ritmo del 25 o 30% ogni anno, ci espandemmo rapidamente e diventammo il 2o produttore di macchine vending in Italia. Fu così che portammo Rhea, meno di mille metri quadri di capannone ad una realtà che – nel ’91 – aveva quasi ottomila metri quadri di capannoni ed era prima per vendite in un paese vending-dipendente come la Francia. Aldo Ortolan (l’allora presidente di Zanussi Grandi Impianti, oggi Necta e da tempo leader italiano) ci disse “Voi due mi fate paura”. Aveva ragione. Furono anni di grandi soluzioni innovative, utilizzate oggi da tutti.

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Il sistema proprietario venduto di India sotto il nome WakeCup da Cafè CoffeeDay

 

E il porzionato come entra nel quadro?

Eravamo a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. Con la crescita apparve sul radar aziendale la parola “acquisizioni”. Si proposero da un lato Damian, specializzata in macchine per panini ecc., e dall’altra Tuttoespresso, produttrice di un sistema a capsule. Acquisimmo entrambe. La Damian era un passaggio logico, come lo fu per Zanussi quando acquistò la tedesca ABA System e la National Vendors/Crane quando acquistò – successivamente – la Automatic Products. Tuttoespresso venne invece comprata in un certo senso per un fraintendimento.

 

Cioè?

TuTTO era l’unica azienda al mondo a quell’epoca ad offrire il porzionato in due capsule di grandezza differente: l’idea si sarebbe diffusa solo vent’anni dopo con Tassimo e infine con Dolce Gusto. Ma il motivo trainante fu che produceva macchine piccole che s’inserivano nella fascia bassa della gamma Rhea: si pensò d’adattarla al modello Rhea e di sfruttare le sinergie della rete distributiva. Per farla breve, le sinergie furono inesistenti, perchè i sistemi porzionati sono tutt’altro business. Quando divenne chiaro a mio padre che il “porzionato” era affare più per chi aveva una marca di caffè che da costruttori di macchine, io venni a sostituirmi nel pacchetto di controllo a Rhea, procedendo col tempo verso una direzione diversa.

 

Eppure si vendono milioni di macchine a capsule.

Vero, oggi qualche azienda produce milioni di pezzi, ma 25 anni fa il mercato era piccolo. E oggi comunque le leve di quel business sono abbastanza diverse da quelle delle macchine “out-of-home”, con una concentrazione che mirabolante: nel 2012 una stima indicava che a livello globale solo l’11% del mercato del porzionato è fuori dai primi 4 players. E l’Autorità Francese della Concorrenza, se leggo i suoi dati di settembre 2014, ci dice che in Francia il primo di questi quattro players controllava (in valore, con le sue due marche) il 98% del mercato del tra 2007 e 2011, poi “sceso” a solo il 96% nel 2012!

 

Cosa fa oggi Tuttoespresso?

Rispetto agli inizi, Tuttoespresso ha rivisto totalmente il proprio modello di business, concentrandosi da tempo nella ricerca. Un cammino inusuale per l’Italia, che tende ad essere indietro nell’innovazione, se guardiamo le statistiche: 60 brevetti all’anno per ogni milione d’abitanti, contro i 129 della media europea.

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Il sistema proprietario venduto di India sotto il nome WakeCup da Cafè CoffeeDay

Per noi resta una corretta interpretazione di un settore dove gli effetti della globalizzazione si sentono come e più che in altri. “Accorciando la filiera” e diventando leader del licensing di soluzioni tecnologiche, che vanno dalle capsule “compatibili”, alle capsule proprietarie, ci siamo tolti qualche soddisfazione, come ad esempio essere la testa pensante dietro alle prime capsule lanciate in India, nelle migliaia di coffeeshops di CoffeeDay. Inoltre, rispetto al passato esclusivamente OCS, questo sviluppo ci ha fatto vivere da vicino anche il mondo consumer, che da sempre è il mercato principale per il caffè.

 

Parlando di capsule, a parità di qualità il porzionato costa molto caro, anche 100 € il kg: è uno dei pochi casi nei quali la quantità non ha ridotto i prezzi.

La fila di gente che compra il caffè a 70€ al kilo in certe “boutiques” – con lo scontrino in mano, come alla posta, è la perfetta sintesi di prezzo remunerativo e consumatore contento. Un esempio di dialogo win-win.

Altro è vedere come si arriva a questo dialogo: buoni caffè, ma ce n’è di migliori, tecnica di preparazione fuori dal canone, una muraglia di brevetti (c’è chi dice utilizzati contro la concorrenza) e marketing pressante che fa leva su stili di vita emulativi e prezzi delle macchine sovvenzionati. Un insieme che alza le barriere all’entrata.

A fronte di ciò, i medi torrefattori progressivamente perdono terreno e le leve del gioco migrano dal “buon caffè” verso capacità finanziaria e di R&S, sinergie distributive, market intelligence e economie di scala. E’ la logica di quella che chiamo “sovrastruttura da terziario avanzato”: per divenire visibile sul “radar” del consumatore odierno si deve continuamente alimentare marketing e ricerca. Che bruciano milioni di Euro come fosse paglia, dando però ritorni solo nel medio o lungo termine.

 

Allora non c’è scampo?

Mondialmente il caffè cresce bene, più di quanto 6 o 7 anni fa si credeva potesse crescere. E’ in fondo la bevanda del capitalismo e i BRIC dimostrano nuovamente – casomai ce ne fosse stato bisogno – la correlazione positiva tra grado d’industrialiazzazione e consumo pro-capite di caffè. Quindi, ovviamente, le nicchie possono essere una risposta vincente. Il problema però è che ospitano una parte sempre maggiore di quell’ingombrato 11% (per rimanere nelle capsule) di cui si diceva.

E il vero discorso di fondo obbligherebbe ad una prospettiva ancora più ampia: prendiamo – di questa – l’aspetto più noto ai torrefattori, l’altalena dei prezzi di Borsa. Nel petrolio – a spanne – la produzione annua gira “sulla carta” ogni giorno, nel caffè circa in un mese. Poichè è la volatilità che fa guadagnare in finanza, i prezzi di Borsa del caffè sembrano dirci che “realtà di mercato” equivale a un imprevedibile casinò royale. La realtà è che – lo ha detto anche Schultz di Starbucks – il prezzo dipende più da chi non toccherà mai un chicco di verde nella sua vita che da madre Natura. Per le “truppe” (chi vive di caffè) restano la Borsa e le siccità, le pioggie abbondanti e gli stratagemmi. E’ sintomatico – oltre che triste – che gli effetti di questo potere, che opera impunito, non si fermino a una gabella per le nostre tasche, ma portino al suicidio economico o reale migliaia di famiglie di coltivatori in India o Messico.

 

E rispetto alla vendita di Carte Noire e l’accorpamento tra Douwe Egberts e Mondalez, cosa ne pensa?

Che è assolutamente in linea con il consolidamento delle quote mondiali, in osmosi con quella “sovrastruttura da terziario avanzato” di cui si diceva. Un’ulteriore dimostrazione è l’attaccamento dimostrato da Lavazza per la (o le) brand rese eventualmente disponibili come conseguenza delle indicazioni fornite dall’anti-trust europeo in merito a questa fusione. Oggi creare (e mantenere) una brand richiede investimenti colossali e tempo. Se, con investimenti ragionevoli, è possibile obliterare una di queste due variabili, si è già a metà dell’opera!

 

I bar, si sa, hanno i consumi in crisi. Unico modo per ridurre i costi e salvarsi è usare miscele scadenti?

Per la fascia alta del mercato le “boutiques” di cui sopra sono – da sole – una risposta. Bisogna però ammettere che in questa società emulativa la “qualità” del consumatore raramente coincide con quella dell’intenditore. E parlando di caffè “scadenti” è utile ricordarsi la celebre storia del caffè “riato”, dove ti abitui ad un caffè ‘difettoso’ e finisce che non apprezzi quando te ne danno uno senza difetti. Voglio dire: a forza di bere caffè così-così può succedere che ad un certo punto un mattino ti svegli e… vuoi canephora.

 

Quanto pensa possa pagare questa scelta “verso il basso”?

Al barista non paga, perchè – citando il saggio “Freak” Antoni – “quando tocchi il fondo puoi sempre iniziare a scavare”: ci sarà sempre un bar meno caro e intanto i clienti scappano. Vero: una certa cultura “storica” del caffè tende a guadagnare a discapito della qualità: fu questo il “peccatuccio” che facilitò la nascita delle brands di caffè, a fine ‘800, quando nei cartoccini in carta delle drogherie capitava di trovare di tutto… tranne che caffè! Ma oggi siam messi così male, direi, che a volte non c’entra neppure la furbizia, quanto piuttosto la paura, in momenti dove a fine mese le vendite dei supermercati calano perchè non ci sono più soldi in tasca.

Insomma, per alcuni calare qualità e prezzi può funzionare e tutti noi conosciamo torrefattori che praticano con successo questa politica. Quindi perchè i baristi non dovrebbero? Ma, quando diventa una strategia endemica e nazionale, assomiglia più a quelle comiche dove l’attore tira la leva sbagliata, che gli resta in mano, e lui ci guarda con fare sbigottito, mentre l’aereo cade in picchiata.

 

Il mercato è dominato anche in Italia da Nespresso. Tantissimi torrefattori, con qualche eccezione, acquistano capsulatrici Nespresso compatibili. Quanto durerà?

Ogni anno Nespresso aggiunge, in fatturato, un’intera Illy se non mezza Lavazza. Un successo epocale, che ha pari solo in GMCR. In più Nespresso sfrutta un lavoro di fondo pluriennale sui propri consumatori che porta questi a credere di accedere al nec plus ultra del caffè. Quanto detto comporta due cose: che tutti provino ad entrare con il loro “Clone di Clooney”. E che, poi, trovino difficoltà nel convertire clienti assai fidelizzati.

Per sapere quanto durerà si deve inserire una terza variabile, Nestlè: che, ce lo ha detto l’anti-trust francese in dettaglio, ha giocato la partita senza esclusione di colpi. C’è chi è ottimista e pensa che il peggio sia passato. Altri citano la barzelletta di Putin: “un pessimista è uno che sorseggiando un buon cognac dice: ‘Avverto un lieve sentore di scarafaggio!’ L’ottimista è quello che prende uno scarafaggio, lo spezza in due e annusandolo fa: ‘Avverto un lieve aroma di cognac!’ E, i miei amici lo sanno, io preferisco il cognac“.

Io credo all’ineluttabilità direi quasi “morale” di questo mercato. Un giornale svizzero ispirandosi a Guerre Stellari ha addirittura intitolato un articolo sulla “guerra” menata da Nestlè “L’Impero colpisce ancora” e, come dire?, l’Imperatore di Star Wars non è l’eroe di quella saga… Eppure comprendo chi, per dirla con Putin, avverte lieve sentore di scarafaggio.

 

Come va, in generale il settore vending nel quale la preparazione del caffè rappresenta larga parte?

Si sa che il vending, avendo clienti in tutti i settori, “copia” l’andamento dell’economia. In più svariate operazioni di M&A avvenute tra ’90 e ’00 hanno creato indebitamenti importanti che – in alcune aziende – richiederanno lustri per venire smaltiti. Nello specifico nel settore dei “gestori” non vedo mutamenti del modello di business tradizionale, da anni 1970/2000, salvo le riduzioni di personale o le ri-organizzazioni. E’ probabile che il problema andrà risolto, prima o poi, andando aldilà della semplice logica cost-cutting.

Per i costruttori del vending la situazione è leggermente differente. Il loro mercato tradizionale, quello della d.a., ha numeri che sono correlati a quelli (mediocri) dei gestori. Esiste però il campo “professionale” delle “super-automatiche”, con margini e crescita importanti, dal quale i costruttori possono attingere per mantenere buoni tassi di crescita.

C’è infine il “macro-cosmo” che attornia il vending. Lo osservai da vicino quando – come vice-presidente EVA – lavorai a Bruxelles nella fase dell’introduzione dell’Euro: nessun aiuto strutturale per gli straordinari costi che il vending dovette sopportare in quanto uno dei pochi business a vivere sulle monete. Fu così che venni introdotto al contesto che – per così dire – “accerchiava” il vending. Una conferma arrivò qualche anno dopo, con quella idea di impedire le merendine iper-caloriche nei d.a. delle scuole – prima in Francia e poi in altri paesi. Aldilà che la norma mise in evidenza la molle azione lobbistica portata avanti dall’EVA, sembrava che per una volta i legislatori avessero platealmente confuso la causa con l’effetto. La realtà è che una crociata simile non poteva nè può basarsi sulla stupidità. Leggere che persino Michelle Obama ha recentemente utilizzato il “vending sano” per la propria propaganda fa pensare che il vending sia preso come una sorta di valvola di spurgo. E’ un peccato che Lucio Pinetti ci abbia lasciato prematuramente, ora che sembrava finalmente che un italiano fosse diretto alla presidenza dell’EVA. Sono certo che avrebbe saputo essere incisivo, come sempre.

 

4 marzo 2015

www.tutto.eu

www.lucamajer.com

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