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Cappai, l’artigiano sardo di tazze in ceramica giapponese per il tè

Approdato in Oriente dalla Sardegna, ha imparato la tecnica nipponica di creazione di stoviglie usate per la tradizionale cerimonia del te e per il kaiseki, forma di pasto che include tante piccole portate

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MILANO – Un ragazzo sardo che parte per il Giappone e impara l’arte della ceramica per le tazze da tè: non è un sogno, ma una storia vera. Il protagonista è Martino Cappai, conosciuto da artigiano come Maru Yakimono, e ha trovato la sua strada nella cerimonia orientale. Un italiano che apprende il made in Japan, di cui leggiamo dall’articolo di Federica Giuliani su repubblica.it.

Cappai: da isola a isola per imparare a fare le tazze da tè

La tradizione della ceramica giapponese è tra le più antiche al mondo ed è stata modellata dalle mani degli artisti che ne hanno creato la storia. È stato così anche per Martino Cappai (in arte Maru Yakimono), giovane sardo approdato in Giappone nel 2015, dopo la laurea in Storia dell’arte contemporanea, per approfondire la tradizione grafica dell’Estremo Oriente.

Cappai si è trasferito a Yakushima – una piccola isola del Pacifico – nel 2017 per fondare insieme all’amico Masahiro Yoshiyama un Centro d’arte irregolare dedicato a persone con disabilità mentali. Qui è stato iniziato all’arte della ceramica comprendendo il rapporto stretto che c’è tra i giapponesi e questo materiale, soprattutto quando di mezzo c’è il cibo: in Giappone le portate di un pasto arrivano a essere anche dieci e ognuna necessita di una stoviglia che varia per forma, materiale e colore.

Dai malati psichiatrici ha imparato a stravolgere i rigidi canoni della decorazione: nella prefettura di Shiga, vicino a Kyoto, ci sono molti laboratori di arte irregolare dove ceramiche crude si trasformano, attraverso lo smalto, in oggetti d’arte da utilizzare quotidianamente.

La cerimonia del tè – Cha no yu – impone regole molto precise anche per quanto riguarda il vasellame

Quattro sono i principi su cui si basa: l‘armonia, il rispetto, la purezza interiore e pace mentale; di conseguenza tutti gli strumenti utilizzati dovranno essere semplici, senza decorazioni o con disegni ispirati alla natura. Questa cerimonia è considerata una delle tre arti classiche della raffinatezza giapponese ed è riconducibile al buddismo zen. Fu nell’anno 815, infatti, che il monaco Eichu fece ritorno dalla Cina, dove si consumava tè già da oltre mille anni, e preparò personalmente il sencha per l’Imperatore Saga. Rimasto colpito, l’imperatore ordinò la creazione di piantagioni di tè nella regione del Kinki, nel Giappone occidentale.

Così, i nobili iniziarono ad apprezzare la bevanda, anche se fu solo nel XII secolo che il consumo del tè iniziò a diffondersi su vasta scala.

Altro rito tradizionale è il kaiseki, il pasto durante cui ogni pietanza viene presentata in recipienti diversi per forma, colore e anche materiale in modo da creare un armonico aspetto visivo. Un rituale simbolico che deve includere i cinque sapori fondamentali : amaro (il tè), dolce (il dolce), acido (i condimenti), salato (i cibi cotti), speziato (fagioli di soia fermentati). Il kaiseki affonda le radici nella filosofia zen accordandosi perfettamente con l’idea di frugalità alla base dei valori del Cha no yu, ma oggi indica anche uno stile gastronomico che consiste in tante piccole portate caratterizzate da diverse tecniche di preparazione in accordo con la stagione in corso: è una moda diventata piuttosto costosa.

“Per un ceramista, ma anche un pasticcere, essere scelto per creare una tazza o un piatto per la cerimonia del tè significa venire legittimato nella professione” dice Martino Cappai

Ma la valutazione delle ceramiche differisce molto dai canoni occidentali, che ricercano simmetria e perfezione: per i giapponesi è fondamentale l’aspetto tattile e ogni oggetto deve risultare piacevole al tocco, deve essere ergonomico nell’impugnatura e lo smalto deve comunicare un senso di calore e morbidezza, secondo i principi del Wabisabi che ricerca la bellezza nell’imperfezione.

Una filosofia che Maru Yakimono ha imparato durante un’esperienza in un monastero zen, dove ha scoperto il valore estetico giapponese secondo cui un oggetto per essere considerato bello deve essere come se fosse nato in natura. Un concetto che permette di essere in fluidità e armonia con l’ambiente circostante. Gestire la tavola, in questo modo, diventa una continua ricerca, un sorpresa che si rinnova a ogni pasto.

“Le stoviglie più insolite in cui ho mangiato sono una corteccia laccata, che conteneva pesce arrosto allo zenzero, e una pietra di fiume nera con una sottile ed elegante venatura bianca, su cui era adagiato del sashimi con wasabi” conclude Maru. In questa concezione cosmologica si inserisce anche il termine itadakimasu: non un semplice “buon appetito” ma una parola da pronunciare a inizio pasto, che significa “ricevo in dono”, per avvicinarsi con corpo e mente al cibo, un dono del nostro pianeta.

Martino Cappai, in attesa di tornare in Giappone, ha creato un laboratorio nella sua Sardegna, sul Monte Serpeddì, a stretto contatto con la natura da cui trae ispirazione quotidianamente. I suoi lavori sono visibili su Instagram.

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