MILANO – Da qualche giorno ha avuto inizio il progetto che vuole coinvolgere tutti coloro che oggi sono in prima linea sulla gestione di locali e caffetterie. L’invito a raccontare la propria esperienza, per evidenziare le criticità così come le soluzioni, è aperto. Il primo ad aver dato il suo punto di vista è un capo distretto, Giuseppe Sgaravatto: una figura che lavora a stretto contatto con gli stessi gestori. E che quindi ne può delineare un profilo dettagliato visto dall’esterno, senza però esserne troppo distante.
Giuseppe Sgaravatto lavora da 30 anni in questo ambiente, occupandosi del Food Service, seguendo direttamente i bar e i ristoranti.
Riportiamo di seguito la sua riflessione sul fenomeno delle aperture e chiusure dei bar.
Giuseppe Sgaravatto, il suo sguardo sul settore
Esordisce così il capo distretto: ” Non sono un barista o un ristoratore. Ma da 30 anni lavoro a stretto contatto con il settore. Prima come formatore e poi come capo distretto. Quindi ricopro il ruolo di chi poi valuta l’affidabilità e di conseguenza, determina l’eventuale investimento che l’azienda per cui lavoro può effettuare su ogni singolo cliente. Inclusi i famigerati finanziamenti.
Ebbene, questo lungo percorso mi ha fatto attraversare diverse “generazioni” di esercenti, di esercizi, di consumi e di consumatori
Una volta c’erano gli esercizi di paese, luoghi di incontro degli abitanti, giovani e vecchi; quasi l’unica fonte di svago dove il gioco delle carte e un flipper erano il fulcro dei servizi offerti. La qualità dei prodotti non era fondamentale. Quasi sempre poi, l’attività era di famiglia, con immobile di proprietà e i dipendenti non si sapeva cosa fossero.
C’erano poi le attività dei centri più grossi o delle città che erano delle vere e proprie “boutique” del consumo fuori casa. Con prodotti esclusivi di qualità, servizio di alto livello, banconieri e camerieri in divisa… Insomma, tutto quello che a casa non potevi avere. Ma la vera sostanza era che per entrambe i casi i costi di esercizio erano praticamente un dettaglio.
Continua il capo distretto: negli ultimi anni tutti questi equilibri sono stati sovvertiti dalla folle idea che ci sia spazio per tutti a prescindere
A prescindere però dalla scelta e dalla cura della location, dalle proprie capacità e conoscenze tecniche; dalla propria empatia e dalla propria managerialità, dalle spese di allestimento di un nuovo locale o di una ristrutturazione, dagli affitti; dal costo del personale e dalla sua professionalità, e da ultimi, ma non per ultimi, la qualità dei prodotti e del servizio.”
L’ultima grande evoluzione, che il capo distretto ha definito “crisi della ristorazione 3.0” è stata la liberalizzazione delle licenze
“Un fattore che ha determinato le aperture senza alcun criterio. Prima era necessario avere un minimo di potere economico per acquisire la licenza. Oggi questo iter burocratico si è semplificato, provocando così l’aumento di chi diventa gestore quasi per caso. Il mondo degli imprenditori si è chiuso, perché il rischio è diventato molto alto. La licenza non è più oggi una garanzia.
Per cui anche le banche si sono ritirate dal settore: i bar non trovano più finanziamenti. Così, oggi il reale problema è che si è in troppi. Con un conseguente abbassamento del livello qualitativo che si sconta soprattutto in termini di servizio: non c’è uno studio dietro di cosa significhi offrirne uno. Non si sa chi sia davvero il cliente e quali siano le sue aspettative.
Manca proprio la mentalità imprenditoriale da parte dei gestori
C’è come un limite culturale dei gestori. A causa del quale si fa fatica a comprendere i meccanismi del mercato: manca la concezione di quelle che sono le possibili evoluzioni e i miglioramenti. Esiste invece ancora un ideale collettivo sull’apertura di un bar, antico, come semplice lavoro autonomo. I numeri e la pratica parlano chiaro: non è un approccio che può portare a dei risultati di successo.
Una strada per migliorare è proprio partire dal servizio e poi anche investire nella qualità
Che dev’essere elevata, perché oggi i prodotti che prima erano reperibili solo nei bar, adesso sono disponibili anche online e spesso favoriscono un confronto che spesso i bar perdono.
Io mi auguravo di assistere ad una selezione naturale. Lasciando spazio solo ai più meritevoli in termini di condizioni e di location. Speravo che spiccassero solo coloro che considerano i clienti e la loro potenziale affluenza nel proprio locale. E’ un fenomeno che, lentamente, con le tante chiusure, sta già un po’ avvenendo. Tra qualche anno si arriverà a dei numeri più significativi. ”
I gestori al momento non si rivolgono alle aziende e ai fornitori per capire come migliorare e vendere meglio
Continua il capo distretto: ” Ancora la colpa è attribuita a qualche fattore esterno. L’atteggiamento dello “scarica barile” è sempre piuttosto diffuso. Il problema è anche il seguente: oggi i gestori hanno talmente poca marginalità che, anche gli imprenditori più intuitivi che si mettono in gioco negli investimenti fanno fatica. Spesso non hanno mezzi economici: proprio in questi casi siamo noi che possiamo aiutarli in tal senso. E trovare le risorse per percorrere nuove vie.
Oggi se ne parla ovunque nei media: la richiesta del consumatore va verso lo specialty
La domanda va al di là della solita miscela, verso la possibilità di assaggiare una monorigine che permette di alzare i prezzi e arricchisce l’immagine del locale. Lancia un messaggio positivo al cliente. Spesso però, viene percepito dai gestori come un costo in più. Sia in termini di formazione tecnica che di prezzi.
C’è stato negli ultimi 30 anni una sorta di involuzione nelle competenze dei baristi
“E’ sempre stato considerato facile aprire un bar e preparare un caffè. Le cose sono peggiorate nel tempo, complice anche la travisazione delle macchine automatiche. Qualcuno sta tentando di andare verso l’ipertecnologizzazione: macchine e macinini on demand, che lavorano in autonomia. Perdendo però così l’aspetto artigianale del servizio. Dovrebbe invece esserci l’esaltazione della professionalità, della personalizzazione nella preparazione. Avendo consapevolezza della materia prima.
Il rapporto con i fornitori inoltre, è banalizzato: si cerca sempre la soluzione più conveniente dal punto di vista economico, trascurando la qualità
Invece, il caffè è proprio il prodotto che ha bisogno di una maggiore trasformazione in assoluto: il barista lo acquista in grani e poi lo trasforma nella bevanda. Dev’esser macinato, dosato e poi preparato. I passaggi sono tanti e complessi. Non è come con le altre bevande. Ed è per questo un po’ il polso dell’andamento del locale. Il caffè è un vero e proprio servizio.
Se un cliente entra in un bar lo fa perché è alla ricerca di un’esperienza più completa e complessa delle semplice compra-vendita di un prodotto. I gestori devono capire che il consumatore finale è disposto a pagare di più rispetto a un supermercato, perché riconosce un servizio, un’attenzione. Un valore in più. Non entra in caffetteria come entrerebbe in un negozio. Bisogna quindi recuperare l’aspetto di boutique fuori casa, allineata al target che la location ospiterà.”
Ultimamente si cerca di combattere l’aumento dei costi e la diminuzione della marginalità con il risparmio smodato
Sia sulle materie prime che sulla qualità del personale. E si è perso quasi completamente il vero modo per uscire da questa stagnazione. Si compra dall’amico dell’amico, basta che costi poco. Abbondano i marchi improvvisati, senza storia, senza garanzie di qualità; non c’è ricerca, non c’è specializzazione, e non si fanno discorsi di marketing. Non c’è consapevolezza di chi è il proprio cliente, nè di quali sono quelli potenziali e di quale potrebbe essere una strategia per conquistarli. In poche parole c’è troppa improvvisazione.
Bisogna assolutamente tornare alla formazione, alla qualità, quella vera. E ricercare aziende che non facciano i semplici fornitori ma che aiutino a vendere meglio e di più.”
Conclude il capo distretto
” Tutto è ancora perfettibile. Innanzitutto però, bisognerebbe prendere consapevolezza di quali sono le reali opportunità e quali i problemi. Mi aspettavo che le nuove generazioni fossero più attive in questo senso, con un conseguente cambio di mentalità. Invece ho notato purtroppo, un ulteriore appiattimento verso il basso. Anche i nuovi gestori, forse schiacciati proprio dal clima generale di crisi che si respira, hanno subito giocato al ribasso.
E’ evidente ormai: il consumatore lo percepisce
Tempo a, una ricerca aveva analizzato le modalità di percezione dei consumatori nel momento del loro ingresso nei bar: per esempio, per quanto riguarda il servizio, il dato emerso è che soltanto il 4% dei clienti si lamenta. Bel il 96% invece, non fornisce feedback e quindi i gestori non hanno neppure la consapevolezza della scarsa qualità che offrono.
Abbiamo inoltre scoperto che la qualità del prodotto sta al secondo posto nella graduatoria degli elementi su cui ha il focus l’aspettativa del cliente. I quali possono contare su talmente tanta offerta tra cui scegliere, che non discute neppure sulla qualità del servizio. E’ sufficiente cambiare bar.
In trentanni ho visitato tutta l’area nord-est dell’Italia per lavoro
Posso dire che “tutto il mondo è Paese”. Alcune città sono migliori, ma facendo una media, il livello resta piuttosto omogeneo. Le situazioni che ho vissuto sono più o meno lo stesse. Qualche differenza comincia a intuirsi solo tra Nord e sud.
Al Sud in effetti, il numero dei pubblici esercizi è minore, e la percentuale di critiche aumenta. I baristi al Nord quindi, quando vedono diminuire il numero di clienti, non sanno darsi una spiegazione esatta.”
di Simonetta Spissu