MILANO – La newsletter pluriquotidiana del Corriere della sera ha affrontato, per la firma di Luca Angelini, il tema dei problemi del caffè legati al cambiamento climatico.
Vi proponiamo il testo dell’intervento che riprende temi noti a chi ci legge ma anche alcune interessanti novità che non possono essere trascurate perché il tema è decisivo per tutta la filiera e anche per i consumatori. Proprio per la sua rilevanza, è un bene che questo diventi un argomento discusso superando la nicchia degli addetti ai lavori.
Cambiamento climatico rende nervoso anche chi produce caffè
(Luca Angelini) Avete presente la scena del film L’aereo più pazzo del mondo in cui si scatena il panico alla notizia che è finito il caffè? Potrebbe succedere anche in diverse redazioni di giornali. Anche per questo non potevamo fare a meno di berci da cima a fondo il lungo articolo di Adele Peters, su Fast Company, sui rischi che i cambiamenti climatici pongono alla produzione delle preziose bacche.
«Non conosco un solo produttore di caffè che non creda nel riscaldamento globale» dice Doug Welsh di Peet’s, azienda di torrefazione e vendita della Bay Area di San Francisco tra le promotrici di World Coffee Research, una non-profit che dal 2012 conduce ricerche sperimentali su nuove varietà che possano rispondere meglio alle nuove sfide climatiche. «Parliamo di una sfida che è più grande di qualsiasi azienda, anzi più grande di qualsiasi Paese» sottolinea Welsh.
Tanto per farsi un’idea della minaccia, secondo un rapporto dell’ottobre 2019 del Columbia Center on Sustainable Investment, nel 2050 fino a tre quarti della terra oggi usata per coltivare caffè di varietà Arabica non sarebbe più disponibile, se le temperature, in quelle aree, continuassero a salire ai tassi di oggi, aumentando di 2,8°C (è già cresciuta di 1,5°C negli ultimi anni).
Il fatto è che la pianta del caffè è alquanto schizzinosa
L’Arabica cresce bene solo nelle fasce tropicali, a temperature fra i 18 e i 21°C, meglio se fra i 550 e i 1.900 metri di altitudine. E, un po’ come l’uva, ha bisogno di una maturazione lenta per sviluppare tutti i sui aromi. Climi più caldi rischiano, quindi, di comprometterne non soltanto la quantità, ma anche la qualità. Da questo punto di vista, le varietà Robusta, anche se più tolleranti dal punto di vista climatico, sono assai meno pregiate dal punto di vista gustativo e non possono quindi essere un valido sostituto. «Non è che non avremo più caffè nel 2050 – dice Hanna Neuschwander del World Coffee Research -. Qualcuno lo produrrà. Ma che gusto avrà e quanto costerà? Che capacità avremo di conservare i caffè più interessanti, aromatici, ricchi di sfumature?».
La ricerca genetica per mettere a punto piante più resistenti al cambiamento climatico – e ai nuovi patogeni, come la cosiddetta ruggine della foglia di caffè – è complicata da diversi fattori
Le varietà commerciali coltivate sono poche, una ventina in tutto, e sono «varietà non troppo distanti tra loro, il che significa che quando le condizioni locali cambiano, le piante non riescono ad adattarsi, ossia non hanno l’ampiezza genetica per potersi adattare» spiega Welsh.
Inoltre, le nuove varietà non devono essere soltanto più resistenti, ma conservare le caratteristiche aromatiche gradite ai consumatori. Le piante, oltretutto, crescono molto lentamente, cosa che rallenta la sperimentazione. «Sviluppare nuove linee genetiche – dice ancora Welsh – è un processo di 10-20 anni. Vorrei che fossimo partiti prima del 2012». Nuove tecniche, come l’editing genetico (o Crispr) potrebbero accelerare i tempi, ma le aziende produttrici temono che i consumatori rifiuterebbero caffè che sappiano troppo di geneticamente modificato.
Se, fin qui, ci siamo occupati di bevitori di caffè, il vero dramma è quello dei produttori
«La maggioranza del raccolto – ricorda Peters – è coltivata da circa 25 milioni di piccoli agricoltori, molti dei quali dipendono dai piccoli frutteti dietro casa per guadagnarsi da vivere. Gran parte di loro vive in povertà, a dispetto del fatto che riforniscono un mercato globale del caffè che vale più di 100 miliardi di dollari».
Non sorprende che tanti di loro abbiano già deciso di arrendersi: nelle carovane di migranti in fuga dal Centroamerica nel 2019 c’erano molti coltivatori di caffè. Per questo, oltre a proteggere le piante, bisognerebbe pensare a strumenti per proteggere chi le coltiva, ad esempio a livello assicurativo.
Qualcosa stanno facendo colossi come Starbucks, consapevoli che perdere i coltivatori vuol dire perdere anche il loro patrimonio di conoscenze su come produrre caffè di qualità. Ma molto di più andrebbe fatto, secondo Kaitlin Cordes, coautrice del rapporto del Columbia Center: «Saremo comunque in grado di procurarci la nostra dose di caffeina. Ma non sono sicura su quanto potrà essere un’esperienza piacevole. E, di sicuro, milioni di vite ne subiranno un impatto».