NAPOLI – La tazzulella napoletana e il caffè sospeso: due riti partenopei che sono stati messi a dura prova dall’arrivo del Covid che ancora oggi, a distanza di un anno, hanno tenuto lontano gli avventori dai bar di tutta la Campania. Di nuovo in zona rossa, c’è bisogno di rievocare almeno nella mente, le immagini di queste abitudini pre-pandemiche. Leggiamole dall’articolo di Guido Trombetti su napoli.repubblica.it.
Caffè sospeso e espresso napoletano: due ricordi un po’ sbiaditi
la Campania torna zona rossa. Con tutte le angosciose conseguenze depressive. Proviamo ad evadere ricorrendo alla levità della tazzina di caffè. Una delle scene più famose del teatro di Eduardo ha a che fare con “la tazzina di caffè”. Nella commedia “Questi fantasmi”, seduto sul balconcino, il protagonista Pasquale spiega al suo dirimpettaio, prof Santanna, come preparare e bere la tazzina di caffè dopo la pennichella pomeridiana sia un rito. Fatto di tempistica e cura dei particolari.
“…A tutto rinuncerei tranne a questa tazzina di caffè dopo quell’oretta di sonno che uno si è fatta dopo mangiato. E me la devo fare io stesso, con le mie mani. Questa è una macchinetta per quattro tazze, ma se ne possono ricavare pure sei, e se le tazze sono piccole pure otto per gli amici. Mia moglie non mi onora, queste cose non le capisce. È molto più giovane di me, sapete, e la nuova generazione ha perduto queste abitudini… oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito… Capirete che, dovendo servire me stesso, seguo le vere esperienze e non trascuro niente… Sul becco… lo vedete il becco? (Prende la macchinetta in mano e indica il becco della caffettiera)… Sul becco io ci metto questo coppitello di carta… (lo mostra). Pare niente, questo coppitello ci ha la sua funzione… E già perchè il fumo denso del primo caffè che scorre, che poi e il più carico, non si disperde…”.
La candidatura all’Unesco
Mai Eduardo avrebbe pensato, quando scrisse la commedia nel 1945, che la tazzina da caffè napoletana potesse essere candidata dalla Regione Campania a divenire Patrimonio immateriale dell’Unesco. Insieme al “Canto a tenore sardo”. Al “Saper fare liutario di Cremona”. Alle feste delle grandi macchine a spalla (come la festa dei Gigli di Nola). All’”Arte del pizzaiuolo napoletano”. Non fosse altro che per il fatto che questo istituto è nato soltanto agli inizi degli anni 2000. Ma in fondo l’obiettivo di Eduardo era sostanzialmente lo stesso.
Rimarcare valenza individuale e sociale della tazzina di caffè. Che ha valore all’interno di una determinata ritualità. Osserva Marino Niola: “A Napoli il caffè non è solo un piacere. È un dovere. Un modo di vedere. La tazzina veicola relazioni. Ha un valore connettivo e collettivo. Insomma quello che nell’Italia del nord fa il vino”. Quante volte avrò sentito mia madre rivolta a un ospite chiedere: «Prende un caffè?». Quante volte ho detto o mi hanno detto per strada: «Prendiamoci un caffè».
L’espressione «prendiamoci un caffè» racchiude molti significati. Molte funzioni
Il piacere di fare due chiacchiere con un amico. Rompere una situazione di imbarazzo. Segnala la necessità di un momento di intimità. Di riservatezza. Arrivato a Napoli nel ‘600, provenendo dall’Abissinia e passando da Trieste, la diffusione del caffè fu ostacolata dal clero che temeva le caratteristiche eccitanti della bevanda. E la accreditava come portatrice di malocchio. Altri ne magnificavano invece le virtù terapeutiche. Pare che la grande spinta alla diffusione del caffè venne, alla fine del ‘700, dalla regina austriaca Maria Carolina, moglie di Ferdinando di Borbone. E ciò anche per motivi diplomatici sull’asse Napoli-Vienna.
L’idea era di utilizzare ogni cosa per creare connessioni sempre più forti con Vienna. Il consumo del caffè, anche sull’onda di un certo anticlericalismo, divenne un segno caratteristico dell’”Illuminismo” del quale Napoli era una roccaforte. Ma torniamo alla valenza sociale della tazzina di caffè. Citando l’usanza forse più singolare e caratteristica che la coinvolge.
Quella del caffè sospeso
Si entra in un bar. Si consuma un caffè. E se ne pagano due. Destinando il secondo caffè a chi essendo magari in difficoltà non può permetterselo. O anche riservandolo a un amico che passerà più tardi. Espressiva la spiegazione di questa usanza che offre Luciano De Crescenzo: “Una volta, a Napoli, nel quartiere Sanità, quando uno era allegro perché qualcosa gli era andata bene, invece di pagare solo un caffè ne pagava due e lasciava il secondo caffè, quello già pagato, per il prossimo cliente.
Il gesto si chiamava caffè sospeso. Poi, di tanto in tanto, si affacciava un povero per chiedere se c’era un sospeso. Era un modo come un altro per offrire un caffè all’Umanità. Il benefattore ed il beneficato magari non sapranno mai l’uno dell’altro. Non si incontreranno mai. Una apertura all’altro assolutamente evangelica”, osserva Marino Niola.