di Maria Rita D’Orsogna
Fisico, docente universitario, attivista ambientale
Ogni giorno nel mondo si bevono 2 miliardi di tazze di caffè. Un giro d’affari di oltre 170 miliardi di dollari l’anno, su cui la catena americana Starbucks ha creato un impero. La catena di Seattle non possiede piantagioni, ma compra il caffè direttamente dai produttori in Centro America o in Africa. Il timore maggiore di Starbucks? I cambiamenti climatici, che stanno stravolgendo raccolti, qualità del caffè e mettendo in ginocchio gli agricoltori. (nella FOTO una foglia di caffè colpita dalla Roya)
Aggiungono che è dal 2004 che si adoperano per efficienza energetica, per l’uso di rinnovabili, per la conservazione delle foreste e per spronare la politica verso soluzioni durature e significative. Ma non è così semplice e non è solo Starbucks ad essere preoccupata. E’ proprio tutta l’industria del caffè, pianta fragile e delicata, che è stata sconvolta dai cambiamenti climatici nel giro di poco tempo.
Il professor Tim Schilling è il direttore esecutivo del World Coffee Research presso l’Università A&M del Texas che conferma: il clima cambia, le montagne dove tradizionalmente cresce il caffè diventano sempre meno ospitali per le piantagioni, e malattie, siccità o piogge torrenziali fuori stagione peggiorano le cose. Il tutto è confermato da Mauricio Galindo capo della International Coffee Organisation che afferma: “Climate change is the biggest threat to the industry”.
Anche l’Intergovernmental Panel on Climate Change (Ipcc) conclude che ci sarà una decrescita della superficie terrestre dove cresce il caffè in tutti i paesi produttori. In particolar modo, se va avanti così, la superficie adatta a coltivare caffè in Brasile potrebbe calare di ben due terzi. Già nel 2014 a causa delle forti siccità il raccolto in Brasile è calato del 20% ed i prezzi raddoppiati. In India i raccolti sono calati del 30% nel dieci anni fra il 2002 al 2011. In totale, nell’annata 2013-2014 la produzione mondiale di caffè e diminuita del 40% rispetto al 2011-2012.
“The only way you can make sense of it is through climate change“, dice Galindo. Di conseguenza i prezzi dell’Arabica, la varietà più comune, sono aumentati dell’80% in un anno. Per i ricchi occidentali si tratterà di prezzi più elevati che forse la maggior parte di noi può anche permettersi, ma le popolazioni rurali il cui sostentamento arriva dalle piante di caffè, in Guatemala o in Nicaragua cosa faranno?
Il Brasile, il Vietnam, l’Indonesia, la Colombia sono paesi produttori importanti che probabilmente avranno le risorse per adattarsi o per spostare le piantagioni più in alto, ma altre nazioni come il Laos, il Perù, il Burundi e il Ruanda potrebbero non farcela. In Uganda o in Etiopia, più in alto di dove sono adesso le piantagioni di caffè non si può andare – non ci sono altitudini maggiori.
Cosa succede al caffè con l’aumentare della temperatura? A 23 gradi il metabolismo delle piante accelera, ci sono meno sostanze chimiche che danno l’aroma tipico del caffè e le piante perdono spontaneamente i propri frutti. Per di più gli attacchi delle pesti e dei funghi diventano più feroci. Due sono i nemici delle piante del caffè: la coffee berry borer, insetto predatore e il coffee rust, un parassita chiamato anche “la roya”.
Il coffee berry borer era sconosciuto fino al 2000 in paesi come l’Etiopia, l’Uganda, il Burundi e il Ruanda, visto che il suo habitat era ad altitudini più basse. Grazie ai cambiamenti climatici questi insetti hanno trovato modo di sopravvivere anche ad altitudini maggiori, incluso nelle piantagioni di caffè. Il tasso riproduttivo del coffee berry borer cambia con la temperatura: adesso è di cinque volte l’anno, ma potrebbe aumentare. Il pesticida usato per estirparli è chiamato Endosulfan, vietato nel 2011 per la sua tossicità. Ecco allora che a distanza di 15 anni i coffee berry borer sono diventati onnipresenti in paesi dove prima non c’erano. Causano danni per circa 500 milioni di dollari l’anno.
In El Salvador “la roya” affligge circa il 75% delle piante. In Costa Rica, il 60%, in Guatemala il 70%. Intere famigle vedono i loro ricavati scomparire. Ovviamente tutto questo si accompagna ad una montagna di problemi sociali essendo tutta l’economia locale basata sul caffè: prestiti, occupazione, indotto, speranza di mobilità sociale. Essendo i coltivatori spesso piccoli produttori in paesi in via di sviluppo e non parte di grandi multinazionali, è evidente che anche non riescono ad assorbire così grandi perdite in così poco tempo.
Ci sono circa cento piante di caffè nel mondo, ma solo due sono quelle che usiamo per le nostre bevande: l’Arabica e la Robusta. L’Arabica è la varietà più sofisticata, la Robusta – con più caffeina e meno raffinata – è quella usata nel caffè istantaneo e che tende ad essere più resistente a fluttuazioni del clima.
Nessuno sa quale sarà la soluzione al tutto. Da un lato si cerca di sviluppare nuovi ibridi di piante di caffè usando le altre novantotto varietà, dall’altro si pensa all’uso dell’ingegneria genetica. L’idea è che il caffè possa sviluppare da se tossine contro le pesti ma ci vogliono soldi ed investimenti e ovviamente, nessuno vuole bere caffè geneticamente modificato.
Vari produttori di caffè mondiali hanno creato una Coffee Farmer Resilience Fund che ha donato circa 23 milioni di dollari ai coltivatori in difficoltà. Starbucks ha anche messo su “Hacienda Alsacia” in Costa Rica, una piantagione sperimentale di sola ricerca, dove usando solo tecniche tradizionali si sta cercando di sviluppare nuovi tipi di semi di Arabica da essere distribuiti gratuitamente a tutti gli agricoltori nella speranza che i raccolti conservino la stessa qualità ma che le piante possano sopravvivere meglio a pesti e piogge.
Tutti gli esperti però concordano: anche se si riuscisse a trovare una qualche varietà di Arabica che possa essere compatibile con i cambiamenti climatici, ci vorranno almeno 25 o 30 anni perché queste possano essere commercializzate e giungere ai coltivatori. Nel frattempo, che fare?