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venerdì 22 Novembre 2024
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Caffè Mauro: accuse campate in aria, dopo 15 anni di processo «immediato» sono tutti assolti

Le accuse nascevano dal sospetto del magistrato che lo storico marchio di caffè calabrese, come succede per altri prodotti come gelati e birre, al di là della semplice fornitura del caffè, il marchio sulle tazzine e le macchinette del caffè in comodato d'uso praticasse ricatti a strozzo i bar attraverso prestiti usurai. Ma alla prova dei fatti non sono emerse evidenze: tutti assolti

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MILANO – Vicenda lunga e infelice quella che negli ultimi 15 anni ha visto coinvolta in storie di mafia e infiniti processi la torrefazione Caffè Mauro: seppur provati innocenti, i membri di questa attività familiare hanno dovuto passare un periodo molto duro, tra condanne, giorni di carceri e, indubbiamente, una reputazione messa a repentaglio. Per ripercorrerne i fatti sino a oggi, l’articolo di Felice Manti e Edoardo Montolli su ilgiornale.it.

Caffè Mauro: un processo «immediato» che è durato 15 anni

REGGIO CALABRIA – E si è risolto in un bel nulla di fatto. Non per l’imprenditore che si è fatto 40 giorni tra carcere e arresti domiciliari a 70 anni da innocente (oggi ne ha 83). Non per l’azienda, che non è più nelle mani della sua famiglia, storica proprietaria di un marchio sponsor di Italia 90 finito persino nelle maglie della Juventus.

Parliamo della Caffè Mauro, un nome che ha fatto la storia di Reggio Calabria. Perché raccontare la storia dei Mauro è ancora più interessante adesso? Perché grazie ad alcune recenti indagini della magistratura si è scoperto che intorno al commercio di caffè in città da anni si sono allungate le mani della ‘ndrangheta.

La famiglia Mauro viene accusata di associazione a delinquere, esercizio abusivo del credito e usura. Cambiali in bianco al posto della fornitura di caffè con tassi di restituzione altissimi. Le indagini le porta avanti il pm Stefano Rocco Fava il 26 dicembre 2003, oggi finito nel tritacarne mediatico per le sue relazioni pericolose nella rete di contatti scoperte grazie ai trojan installati nel telefonino dell’ex leader dell’Anm Luca Palamara, poi la palla passa ad altri colleghi.

Tutto nasce dal sospetto che lo storico marchio di caffè, come succede per altri prodotti come gelati e birre, al di là della semplice fornitura del caffè, il marchio sulle tazzine e le macchinette del caffè in comodato d’uso ricatti a strozzo i bar attraverso prestiti usurai.

Un sospetto attorno a Caffè Mauro

La Procura, sappiamo adesso, si è mossa su presupposti campati in aria, eppure era chiaro fin da subito dai racconti delle presunte vittime che le cose erano andate diversamente da come le raccontava la Procura. «Per la legge, la Commissione europea e l’Associazione nazionale torrefattori era tutto ok», spiega al Giornale Fabio Schembri, uno dei legali della famiglia Mauro. Non serviva (al tempo) una finanziaria, la Mauro poteva erogarli direttamente, come facevano altre aziende in altre città. L’accusa si basa su una bizzarra perizia di parte – per cui sarà chiesta una liquidazione astronomica di 518mila euro (poi liquidata con 60mila euro per il pressing della difesa) – secondo cui l’interesse sui prestiti fosse del 69.000.000%. A ribaltarla ci pensa il perito del tribunale, secondo cui gli interessi sono intorno all’8-10% e talvolta oscillano tra 0 e 0,5%: in linea, se non vantaggiosi, rispetto a quelli di qualsiasi banca a tempo.

La difesa ha fretta, rinuncia a 250 testimoni a favore, anche perché le presunte vittime difendono i Mauro, e vede sfilare tre corti diverse senza fiatare, pur di chiudere in fretta il processo con rito «immediato».

Di anni ne passano 15

Nel 2013 in primo grado – dopo 8 anni e 9 mesi – il verdetto è chiaro: assolti. La Procura insiste e fa ricorso a un passo dalla prescrizione. Con la nuova riforma sarebbe stato un calvario ancora più lungo, a dimostrazione che a volte sono i pm a titare in lungo i processi. I Mauro escono dalla società senza prendere un euro per non mandarla in malora. Ma il calvario giudiziario dura altri sei anni, fino al verdetto definitivo del 2019: innocenti.

Nei giorni scorsi, grazie all’inchiesta Malefix che ha (ri)portato in carcere l’ex killer di ‘ndrangheta Luigi Molinetti, a piede libero dal 2007 sulle cui tracce c’era da tempo Klaus Davi, si è scoperto il boss aveva in mano un brand di caffè comprato dal clan di camorra degli Zagaria, che imponeva a una trentina di bar ed esercizi commerciali del Reggino. Perché alla ‘ndrangheta fa gola un bar?

Perché, come si legge nel libro Prodotto interno sporco bar e ristoranti sono lavanderie perfette che le cosche usano per riciclare i proventi del narcotraffico attraverso un elaborato meccanismo di «invasione fiscale» e fatture false. In particolare per la fornitura di caffè.

Si calcola che almeno un bar e un ristorante su cinque siano in mano alle mafie, e con il lockdown e la crisi la percentuale è destinata ad aumentare. È un azzardo, forse. Ma è lecito pensare oggi che l’indebolimento di un competitor forte come la Mauro nel 2003 abbia dato una bella mano alle ‘ndrine.

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