di Maurizio Bertera*
Il caffè (in capsula) rende nervosi. I consumatori come le aziende, tanto da far tornare in mente la memorabile battuta di Massimo Troisi in “Scusate il ritardo” (1982): «è ’o massimo da’ solitudine uno che tiene ’a macchinetta do’ caffè per una persona».
L’attore napoletano sarebbe ancora adesso un fervente devoto della caffettiera e resterebbe perplesso vedendo la crescita incredibile – tanto più in questo periodo – delle cialde e delle capsule: secondo Euromonitor, il mercato mondiale – entro il 2015 – supererà i 12 miliardi di dollari, il 57% in più rispetto agli 8 miliardi del valore attuale. Il business è impressionante da quando gli appassionati si sono innamorati del “sistema” senza accorgersi che pagano tanti soldini in più.
Sul tema, Dissapore (il sito più amato dai foodies), ha provato a fare due calcoli. Bene, la voglia di veder apparire George Clooney (o sentirsi l’attore americano) in cucina fa dimenticare che il prezzo medio del caffè macinato espresso è di 9,84 euro al kg, quello medio di capsule e cialde sale a 37,69 euro al kg e – udite udite – quello delle sole capsule è arrivato a 46,48 al kg.
Se siete basiti, fate un salto in torrefazione, uno in un supermercato e uno negli store specializzati e vedrete che non hanno sbagliato. Lasciando da parte rapide analisi sociologiche (una differenza nel prezzo così clamorosa è giustificabile solo con la comodità di preparazione? In gran parte sì, ma non solo), si intuisce perché il mercato è diventato terreno di guerra senza quartiere.
E tenete presente che l’Italia non vale ancora molto, visto che in casa ancora il 95% delle persone usa la cara vecchia moka.
Al tempo stesso questo dato apre praterie ai “conquistatori” e comunque già il riciclo di cialde e/o capsule sta sollevando più di un problema: vedi l’inchiesta di Report, che segue quella della scarsa qualità della “tazzina” nei bar delle città italiane. Ahimé, siamo sempre un popolo di navigatori e a quanto pare di (buoni) torrefattori.
Ultimo tassello da considerare: nel mitico (o anacronistico) paniere Istat dei prezzi al consmo sono entrate sia le macchine per fare il caffè, sia le cialde-capsule da utilizzarvi. Anche questo la dice lungo sul “peso” economico del settore negli anni a venire.
Torniamo all’inizio: chi è più nervoso di tutti ovviamente è Nespresso: tante grazie, il 34% sul mercato mondiale valgono – secondo gli analisti – 4,8 miliardi di dollari, con un margine operativo del 30 per cento. Ma la pacchia pare finita, visto che i sempre più agguerriti competitor puntano sull’unico punto debole del brand Nestlé: l’assenza (voluta) dai supermercati.
Quindi, basta mettere in vendita cialde/capsule compatibili con le macchinette, a un prezzo inferiore, e si scatena l’inferno. Il colosso ovviamente ha reagito intentando cause legali praticamente in ogni Paese della Ue ma ha perso regolarmente. Nello scorso ottobre, l’European Patent Office ha chiuso il dibattito per sempre, sancendo che chiunque, in ogni membro dell’Unione europea, può offrire sul mercato la “sua” versione delle capsule in alluminio.
Assorbito a malapena il dolore per il pronunciamento, la multinazionale svizzera si è trovata il nemico non alle porte ma in casa: Mondelez International, secondo player al mondo del settore alimentare (4 miliardi di dollari con brand tipo Milka, Tuc, Oreo, Philadelphia…) ha deciso di lanciare un range di capsule compatibili proprio in Svizzera, Austria, Francia e Germania.
Quanto all’Italia – dove si dovrebbe indossare il saio dei flagellanti: siamo il Paese del Caffè e sono stati gli svizzeri a creare il vero business mondiale – Nespresso ha subito un colpo perdendo la battaglia legale contro Vergnano, accusata anch’essa di copiare e uscita vittoriosa forse oltre il prevedibile: il tribunale di Torino è arrivato al punto di ordinare a Nestlé di astenersi da qualsiasi attività denigratoria nei confronti del concorrente.
Le altre aziende tricolori seguono strategie diverse ma ugualmente interessanti. Illy e Kimbo hanno deciso di allearsi – mai successo – per creare un proprio sistema che consente l’uso della capsule dei due marchi. Lavazza, che a livello di torrefazione, è saldamente all’ottavo posto e vanta un’immagine importante (per esempio, è fortissima nell’alta ristorazione), si muove su due fronti.
Da un lato ha annunciato un investimento di 60 milioni di euro per uno stabilimento dedicato solo alle capsule e dall’altro cerca alleati per i mercati esteri, quello americano in particolare: sensibile come pochi al made in Italy (mai scordare che è il caffè ufficiale di tutti i punti Eataly, grandi e piccini) e in crescita continua (4% annuo).
In febbraio, ha fatto una mossa importante, acquisendo con 105 milioni di euro l’8% del capitale di Green Mountain Coffee (Gmc), leader con il popolarissimo sistema Keurig. Lavazza fornirà il suo caffè per le capsule ovviamente. Elemento che è sfuggito ai più, Gmc ha un accordo con Starbucks, il colosso con 20mila negozi in 58 Paesi, Italia esclusa.
Un paradosso, visto che il “format” attuale, nacque da una visita a Milano – trent’anni fa – di Howard Schultz, storico presidente e ad della società di Seattle, che restò colpito dal valore della nostra caffetteria, dal peso sociale e commerciale che rappresentava.
Al tempo stesso, si convinse che il modello non avrebbe funzionato da noi. «Agli italiani non piacciono e non piaceranno le tazze di cartone, non considerano minimamente l’idea di un caffè fuori dal bar, bevendolo mentre camminano o guidano».
Forse, il tabù cadrà presto ma sta di fatto che Lavazza potrebbe cambiare (a favore o contro?) la storia se finirà a lavorare con Starbucks.
*Fonte: http://bkp.linkiesta.it/guerra-delle-cialde-di-caffe