MILANO – Il caffè che entra dentro il carcere non è una novità, fortunatamente: abbiamo già raccontato la storia della torrefazione Le Lazzarelle di Napoli, e ora condividiamo con i lettori l’iniziativa del Caffè Galeotto, un programma attivato da Panta Coop, cooperativa sociale che esiste ormai da 22 anni e che si occupa di formazione e occupazione durante l’esecuzione della pena dei detenuti nel carcere di Rebibbia a Roma. L’amministratore, Mauro Pellegrini, ci ha spiegato bene come si è sviluppato il progetto.
Caffè Galeotto, una chance di reinserimento sociale
Pellegrini: “Le cooperative sociali non possono dividere l’utile tra i soci, ma devono reinvestirlo in progetti socialmente utili alla chiusura dell’anno e così aiutiamo i detenuti. Caffè Galeotto è la nostra ultima iniziativa. Nella Regione Lazio non c’era ancora una torrefazione di questo tipo: è una professione invece molto richiesta sul mercato esterno e si sposa con il nostro obiettivo, ovvero quello di formare le persone per reinserirle nel mondo del lavoro.
Quando proponiamo un progetto alle istituzioni, viene valutato il suo impatto per poter partire. Prima di presentarlo quindi, svolgiamo le nostre ricerche di mercato e sviluppiamo un’idea strategica che possa funzionare. Come ho accennato prima, Caffè Galeotto nasce proprio da un gap che abbiamo riscontrato nella torrefazione in carcere. Per dividere l’utile del bilancio del 2011, abbiamo portato all’attenzione delle istituzioni il nostro piano: loro ci hanno messo a disposizione i locali, e noi invece abbiamo acquistato i macchinari necessari e poi ci siamo formati seguiti da degli esperti del settore che ci hanno insegnato e poi seguito nel percorso per alcuni anni.
Fin qui possiamo dire di aver riscontrato un grande successo: soltanto un detenuto, tanti anni fa, ha commesso di nuovo un’infrazione, ma è stato l’unico caso in 20 anni. Questo a dimostrazione che il progetto funziona, così come tutti i nostri progetti oltre il Caffè Galeotto. Abbiamo iniziato nel 2012 e siamo usciti sul mercato con il primo chilo di caffè nel 2014. “
Com’è nata l’idea di portare la torrefazione nel carcere di Rebibbia?
“Ci siamo focalizzati su Rebibbia perché la cooperativa è nata sull’allora quinto municipio – che ora è il quarto – cioè la zona vicina al carcere.”
Com’è strutturato il Caffè Galeotto?
“Importiamo il caffè crudo, e selezioniamo varie origini. L’espresso italiano deve contenere minimo 4 origini diverse tra Arabica o Robusta: noi ne utilizziamo il doppio, perché più materia prima misceliamo, più le caratteristiche organolettiche e gustative risulteranno arricchite. Abbiamo fatto la scelta di non considerare le monorigini, perché qui in zona non rientrano nel gusto dei consumatori. Abbiamo il grano per il bar, la mattonella di 250 grammi per la moka, le capsule, le cialde, le compatibili Nespresso: insomma copriamo
un po’ tutti i canali. Nelle rispettive linee proponiamo anche l’alternativa del decaffeinato.
Innanzitutto i ragazzi vengono occupati durante l’esecuzione pena, quando maturano i privilegi di legge escono: abbiamo un negozio dove si vende il caffè.
Dalla torrefazione, che è il primo passo verso la libertà, si passa in un secondo momento allo store, dove i detenuti sono già in grado di raccontare e vendere il prodotto. Da questa esperienza, o rimangono a lavorare con noi, oppure escono in altre aziende con cui
collaboriamo da tempo.”
Col tempo quali sono i professionisti che avete coinvolto nel progetto?
“Ci sono i grossi torrefattori di zona, come Palombini, Trombetta e anche illy che ci hanno offerto la loro assistenza: sono passati tutti a trovarci e a darci i loro consigli su come meglio svolgere questo processo. Ma ormai abbiamo acquisito abbastanza esperienza per esser autonomi.”
L’impatto sociale è un punto cardine di Caffè Galeotto: avete per caso anche contatti diretti con i farmer in origine?
“Per il verde importiamo attraverso Alkaff, crudisti a cui ci rivolgiamo. A volte alterniamo la collaborazione con altri fornitori, ma ormai loro sono i nostri punti di riferimento, perché rispettano i controlli stretti che noi stessi dobbiamo superare. Attualmente abbiamo come Arabica un Brasile, Honduras, Colombia, mentre come Robusta due tipi di Indiani, dal Cameron e dall’Uganda e raramente abbiamo anche un vietnamita. “
Che caffè tostate e in che modo li trattate?
“Dipende dalla miscela, da ciò che utilizziamo, dal tipo di clientela di riferimento. Le nostre miscele non sono tostate troppo scure: nel Lazio il caffè non piace tostato eccessivamente. Anche perché una volta imbustato rilascia sostanze oleose e non va bene. Il nostro è mediamente scuro. Abbiamo miscele che oscillano dai 9 ai 14 e 50 al chilo. Il decaffeinato dai 16 ai 18. “
Sono tanti poi i ragazzi che continuano su questa strada perché appassionati della materia prima?
“Certo. Questa è la nostra soddisfazione più grande. Quando parlo di recidiva pari a zero è proprio perché nessuno rientra in carcere dopo aver fatto questo percorso insieme a noi. Una volta acquisita la professione si rendono conto di poter vivere dignitosamente senza ledere la loro libertà. Noi scegliamo persone che sono finite lì per un errore, per disperazione, per mancanza di opportunità e per esser cresciuti in contesti di disagio: a loro offriamo una prospettiva differente. Tutto sta nel trovare chi vuole investire con noi
energie, tempo e risorse per cambiare vita.”
Progetti futuri sul Caffè Galeotto?
“Attualmente, per quanto riguarda le capsule e le cialde compatibili e il vending, non avendo i macchinari di proprietà, ci rivolgiamo per cialdare e incapsulare a terzi. Il prossimo investimento sarà quello di portare all’interno del carcere l’attrezzatura, per far acquisire le competenze di gestione delle incapsulatrici che trasformano i grani in capsule e cialde. Sono molto complessi e costosi, è necessario tararle adeguatamente: chi ci venderà le macchine, oltre all’installazione si occuperà anche di fare formazione al personale tutti i giorni per diverso tempo e trasmettere così il loro know-how.”
Conclude Pellegrini: “Quelli come Caffè Galeotto, sono progetti importanti per la società, che nel momento in cui è più sicura porta benefici per tutti. Noi portiamo avanti il progetto con convinzione e abbiamo fatto un buon lavoro sin qui, dimostrato dall’assenza di ritorno al crimine. È chiaro che per far funzionare iniziative di questo genere bisogna remare nella stessa direzione con le istituzioni: avere per esempio un direttore di carcere dalla mentalità chiusa, non renderebbe possibile realizzare questi piani. Nel complesso di Rebibbia, la direttrice Santoro invece si è sempre dimostrata particolarmente ricettiva e favorevole: questo ha giovato all’efficienza di Caffè Galeotto.”