MILANO – Chi beve caffè è meno a rischio di ammalarsi di Parkinson? Gli studi su questa ipotesi non si contano. Nel 2012, un gruppo di ricercatori londinesi diretti da Alastair Noyce della University College di Londra ne contavano già 3.856. Da cui ricavarono una metanalisi pubblicata sugli Annals of Neurology. Secondo cui grazie al caffè il rischio di sviluppare malattia di Parkinson cala dello 0,67%.
Uno dei primi è stato uno studio pubblicato del 2000 su JAMA dai ricercatori del Department of Veterans Affairs di Honolulu diretti da Weber Ross. Secondo cui 4-5 once di caffè (circa 4-5 tazzine) al giorno sembrano ridurre di 5 volte il rischio di Parkinson.
L’effetto si presenta anche quando la caffeina non proviene dal caffè. Ma da altre fonti, come per esempio alcune bevande.
I ricercatori americani hanno cercato anche di capire se altre sostanze contenute nel chicco di caffè, come la niacina, potessero essere responsabili dell’effetto. Ma non hanno trovato alcuna correlazione significativa.
Causalità inversa
Ora un articolo pubblicato su Neurology da un gruppo di ricercatori canadesi e brasiliani (Università di Toronto, Manitoba, Calgary, Ottawa, Vancouver, Parana e Cutiriba), diretti da Ronald Postuma dell’Università di Montreal, smentirebbe anni di ricerche. Indicando per il caffè un’azione cosiddetta di “causalità inversa”. Già invocata da altri per il fumo, anch’esso a lungo considerato protettivo per questa malattia.
In sostanza, chi sta sviluppando il Parkinson va incontro, ancora nella fase prodromica (ovvero prima che compaiano i sintomi classici), a una minor tollerabilità per la caffeina così come per la nicotina. Provandone minor desiderio e traendone minor giovamento.
La ripulsa per il caffè sarebbe associata al rischio di Parkinson. Ma ciò non vuol dire che il caffè prevenga la malattia. Bensì che fra chi ha piacere a bere caffè e fumare è improbabile che si sviluppi questa malattia.
Cioè il piacere di bere caffè è tipico di una certa conformazione del sistema nervoso. Che porta a non essere colpiti dalla malattia. A prescindere dal numero di tazzine consumate.
Causalità genetica
Tre anni fa i ricercatori svedesi della Linköping University diretti da Naomi Yamada-Fowler hanno identificato un fattore genetico legato all’interazione caffè-malattia. Lo studio pubblicato su Plos One indica che sarebbe una variante genetica chiamata GRIN2A a potenziare l’effetto del piacere della caffeina. E la variante sembrerebbe posseduta solo da quelli che apprezzano particolarmente la tazza di caffè.
Il fatto che il caffè protegga chi è portatore della particolare variante di questo gene, che si esplicita con un particolare gusto per la bevanda, è però complicato dal fatto che nella malattia di Parkinson si verifica l’alterazione dei cosiddetti meccanismi di compenso che regolano la nostra percezione del piacere. Quindi come giudicare obiettivamente questo aspetto?
Fattori confondenti
L’autore del recente studio pubblicato su Neurology se lo chiede. Quando mette in guardia sui numerosi fattori confondenti che intervengono in questo tipo di valutazioni.
Il fatto che, come ha dimostrato tre anni fa sempre su Neurology Beate Ritz della Los Angeles University, chi sta covando una malattia di Parkinson ancora in fase prodromica trovi molto più facile smettere di fumare, indica che esistono legami diversi fra i sistemi di piacere e dipendenza di questi pazienti a seconda del loro rischio di malattia e ciò deve costituire un ulteriore fattore da considerare nella valutazione.
Autosmentita clamorosa
Anche Postuma, a onor del vero, si era lasciato confondere. Accadde quando nel 2012 aveva pubblicato, su Neurology, uno studio sulla possibile efficacia della caffeina nel trattamento della malattia di Parkinson.
Adesso il ricercatore canadese ritorna sui suoi passi. Giudicando quello studio troppo breve (6 settimane) e in verità fatto allo scopo di verificare se la caffeina migliorava i sintomi motori del Parkinson. E non già se preveniva la malattia. Un risultato che, come Postuma ora dichiara, si manifestò per caso.
Col nuovo studio ha voluto approfondire la questione analizzando 121 pazienti con età compresa fra 48 e 75 anni. Tutti malati da un periodo di tempo che andava dai 6 mesi agli 8 anni.
Reclutati in 7 centri universitari diversi, sono stati valutati secondo un protocollo rigidamente uniforme in doppio cieco. Con capsule di caffeina e placebo assolutamente indistinguibili fra loro, da non associare assolutamente a eventuali caffè da bere oltre i previsti 200 mg di caffeina due volte al giorno. Che corrisponde grosso modo a 3 caffè.
Espresso e caffè americano
Chi sgarrava veniva escluso dallo studio. Tre pazienti sono stati allontanati per aver superato i 300 mg al giorno.
Per non creare problemi di tollerabilità a chi non era abituato al caffè, prima di arrivare a 200 mg, la dose è stata aumentata lentamente di 50 mg al giorno. Partendo con una prima settimana di placebo e arrivando al dosaggio pieno solo dopo 9 settimane.
Negli Stati Uniti una tazza di caffè è di quasi un’oncia (circa 30 grammi). Ma il caffè è più diluito del nostro espresso. Che pur pesando appena 3-4 grammi, ha una concentrazione di caffeina pressoché equivalente (100 mg circa).
Sintomi motori e non motori
I ricercatori si sono concentrati su due aspetti. Gli effetti della caffeina sui sintomi motori (discinesie, tremori, ecc.) e non motori (disturbi del sonno, cognitività, ecc.). E sull’effetto di riduzione del rischio.
I sintomi motori e non motori sono stati valutati con visite trimestrali dei pazienti tramite la scala MDS-UPRDS. Che è la più diffusa per la malattia di Parkinson.
Dopo 3 e 6 mesi non sono state rilevate differenze significative fra il gruppo placebo e chi prendeva caffeina. Se non una lieve differenza riguardo al sonno. Ma, come commenta lo stesso Postuma, la riduzione della sonnolenza è un ben noto effetto della caffeina. Anche nella popolazione generale.
Miglioramenti in calo
I ricercatori hanno notato che comunque tale miglioramento va attenuandosi nel tempo. Per decadere dopo 12 mesi.
In quella fase dello studio è stato osservato, rispetto al placebo, anche un modesto aumento delle discinesie, i movimenti involontari della muscolatura, che si fa più evidente dopo 18. Quando il test MoCA usato per valutare la cognitività indicava un parallelo peggioramento delle funzioni intellettive.
Fuoco di paglia
Come scrive Postuma, è possibile che i bei risultati ottenuti nel suo precedente studio del 2012, peraltro interrotto precocemente perché non sembrava portare a ulteriori vantaggi, fossero legati all’impiego del caffè a breve termine. Risultati che invece nel lungo termine si perdono.
«Quindi, nonostante questa sostanza, decisamente poco costosa e che, secondo i precedenti studi nostri e di altri, sembrava davvero poter rappresentare un ottimo aiuto anche per chi era già stato colpito dalla malattia – scrive nelle conclusioni Postuma -. Il messaggio di questo studio è in definitiva che il caffè non può essere raccomandato come terapia sintomatica dei disturbi del movimento. Perché i suoi effetti col tempo si perdono. Per di più con la complicanza dei problemi discinetici e cognitivi osservati nel lungo termine».
Dubbi sui risultati
Il professor Charles B. Hall dell’Albert Einstein College of Medicine di New York ha trovato però due lacune nello studio di Postuma. Lacune che potrebbero inficiarne i risultati e l’ha scritto come commento sullo stesso numero di Neurology. I ricercatori si sono affidati alla compilazione di una scheda. Dove i pazienti annotavano la quantità di caffeina assunta giornalmente. Ma non hanno verificato la loro vera aderenza al regime terapeutico tramite una misurazione ematica.
Se ne avevano presa di più o di meno di quanto risultasse ai ricercatori, che hanno escluso forse gli unici tre pazienti davvero sinceri, non lo sappiamo. Secondo un vecchio studio dell’Università giapponese di Tohoku pubblicato su Brain, una disfunzione della corteccia cerebrale prefrontale renderebbe questi pazienti incapaci di mentire. Ma in medicina contano i fatti verificati.
C’è anche un altro problema. Il dosaggio usato da Postuma si è basato su precedenti studi. Ma non si sa se un caffè espresso italiano potrebbe portare a risultati diversi.
Ci vorranno altri studi di conferma con dosaggi diversi. La storia del caffè e del Parkinson potrebbe non essere finita qui.
Cesare Peccarisi