TRIESTE – Davanti alle sue vetrate è passato il secolo breve Paolo Rumiz ha raccontato lunedì sul quotidiano Repubblica l’imminente riapertura del Caffè degli Specchi. Ve lo proponiamo. di Paolo Rumiz. La rivolta contro gli Alleati le sparatorie con i morti del ’53. E ancora l’arrivo dei bersaglieri in un mare di tricolori, i comizi del sindaco Bartoli (“Gianni Lacrima”) e quelli “italianissimi” di Giorgio Almirante con pretoriani in camicia nera e un giovanissimo Fini al seguito. “Quando riapre?”, si sono chiesti per mesi i triestini passando davanti alle sue porte chiuse in piazza Unità, e la domanda riguardava tacitamente gli “Specchi”, il caffè più famoso, “Tukor Kavehaz” per i magiari, “Café aux miroirs” per i francesi, il salotto buono su cui dal 1839, anno dell’apertura, sono sventolate ben 5 bandiere nazionali.
Caffè degli Specchi: ora c’è la risposta: riapre a marzo
Dopo la resa della precedente gestione agli affitti delle Assicurazioni Generali, arriva Segafredo Zanetti, e già ci si chiede come si rapporterà il nuovo inquilino con una città che ha offerto dedizione all’Austria per mezzo millennio, specie in una piazza dove ogni pietra, eccetto i pili dell’alzabandiera, parla tedesco. Luogo di specchi e di donne allo specchio, di identità che si mescolano e si contrappongono, metafora di un luogo complesso e plurale, sfondo di trame e amori, misteri e delitti.
E’ un’atmosfera viennese da film “Il terzo uomo” quella che Giuliana Morandini evoca nel libro che ha per titolo appunto Caffè Specchi, premio Viareggio 1983. E specchio, il primo caffè di Trieste lo è a tutti gli effetti: perché è lo spazio dove la comunità celebra il rito dell’appartenenza. Specchio, anche, delle metamorfosi dei tempi, simboleggiate dai ripetuti restauri (anche la nuova gestione ha voluto lasciare il segno) che rendono quasi impossibile ripescarne il volto originale.
Oggi nessuno sa com’era il caffè nel 1839, quando il greco Nicolò Priovolo lo aprì al pianoterra del sontuoso palazzo di un altro greco, l’imprenditore Nicolò Stratti. Dell’epoca resta solo, alla sommità della facciata, un’allegoria statuaria di tutto ciò che Trieste ha perduto: arti, industria, navigazione e ferrovie. Forse per queste continue trasformazioni gli “Specchi” hanno poca letteratura rispetto al “Tommaseo” o al “San Marco”. Gli “Specchi” erano troppo illuminati, troppo sotto sorveglianza per covare un’identità segreta. In un libro di Stelio Vinci, il vecchio assicuratore Fritz Morway racconta per esempio che tra le due guerre alla fine del Kippur gli ebrei che andavano a rifocillarsi al “San Marco” della contigua sinagoga erano così tanti che formavano lunghe code come in guerra ai tempi del razionamento. Spiegare a un napoletano o un milanese un posto come gli “Specchi” è come dire a un americano che la birra non va tracannata dalla bottiglia ma in bicchiere. Impresa disperata. Il caffè-bar in Italia è un posto dove si beve in piedi; nei vecchi locali di Trieste invece si sta ai tavoli tra velluti, séparé e poltroncine.
Come in Austria, chi consuma al banco è compatito o guardato con disapprovazione (“Sie sind nicht ein Pferd”, non sei un cavallo, ho sentito dire a uno straniero che si ostinava a bere in piedi a Vienna) e anche agli “Specchi” è inconcepibile la posizione eretta, inimmaginabile la consumazione frettolosa. Ai sui tavoli si assiste al tramonto sul mare, si consuma un rito sabbatico di lentezza.
Nei caffè tradizionali, i triestini ci vanno per nascondersi, stare in pace, studiare, attendere qualcuno, infrattarsi da soli o in conventicole
A fine Ottocento al “Greco” i mercati di sete fumavano il narghilè o la pipa di gelsomino, “vestiti in abiti scarlatti sfavillanti d’oro”. A pochi metri dagli “Specchi” c’era il “Garibaldi” (ex “Municipio” e prima ancora “Litke”) e lì – racconta Vinci – negli anni Venti trovavi alla stessa tavola giganti come Svevo, Joyce, Saba, Stuparich, Bazlen. Stendhal andava a scrivere al “Tommaseo” e al “San Marco” c’era Magris, che ora fugge nella buia sala interna dello “Stella Polare”. Per conquistarsi la pace, c’era persino chi affrontava esodi. Giorgio Voghera con Alma Morpurgo e Piero Kern, trio di vegliardi inimitabili, dopo infiniti traslochi finirono per approdare al periferico “Bar Giulia”, a due passi dagli alambicchi del defunto birrificio “Dreher”. “Al prezzo di un cappuccino me ne stavo in pace intere mezze giornate al caffè Milano a preparare la tesi, e nessuno si sognava di farmi fretta” racconta Elvio Guagnini, storico della letteratura. “Mi faceva compagnia il rumore dei rimbalzi del biliardo della sala attigua. Ogni caffè aveva la sua acustica”.
Ma era lo sfoglio delle pagine di giornale il sottofondo dominante. Già nel 1865 i caffè triestini avevanoa disposizione 48 testate, di cui 23 italiane, 17 in lingua tedesca, sei francesi e due inglesi, tutto con intelaiature di legno. Erano il nascondiglio, la tana. Agli “Specchi”, invece, ci si è sempre andati per mostrarsi. Nel libro “La città dei venti” Veit Heinichen ironizza sulle “triestine biondo platino” con cagnolino, anch’esse “ristrutturate” come il caffè dei mille restauri. Ma agli “Specchi” ci si va soprattutto per sapere cosa accade fuori, perché fuori c’è la piazza più bella del Mediterraneo, il municipio, il mare delle grandi navi. In 172 anni lì è passato di tutto.
La partenza di Massimiliano d’Asburgo per il Messico fatale
L’interramento del porticciolo, la demolizione della “Locanda Grande” ricettacolo di avventurieri dove dormì Casanova e venne ucciso l’archeologo Winkelmann, la prima passeggiata di Elisabetta d’Austria con cappellino e veletta sul mare che non ha mai conosciuto. “Il 20 settembre del 1902 – racconta Gianni Pistrini, specialista di caffè – un commando di irredentisti salì sulla torretta del municipio, issò sul pennone un tricolore e poi, andandosene, bloccò con piombo fuso la serratura della scala d’accesso, di modo che ci vollero ore per rimettere il vessillo austriaco”. Dagli “Specchi” si vide tutto: l’arrivo e la fuga dei patrioti, il trambusto dei gendarmi.
Si videro anche gli irredentisti fare irruzione tra i tavoli per mangiare gratis a spese degli austriacanti derisi come servi, o meglio “leccapiattini”. Gli “Specchi” erano famosi per le orchestrine all’aperto.
In una cartolina primi Novecento con réclame delle acque diuretiche di Carlsbad, si annunciano musiche di Kallmeyer, Verdi, Gounod, Mascagni, Strauss. Nel Ventennio sono i repertori del maestro Attilio Safred e, appena si spegne l’eco di “Giovinezza”, ecco sbarcare il boogie woogie degli Alleati, che requisiscono il locale per le loro feste, cui le gettonatissime “mule” triestine possono partecipare solo se accompagnate da angloamericani. E intanto, fuori, il popolino escluso si prendeva la sua rivincita, anch’esso in musica: “In piazza granda / cafè dei speci / xe quatro veci / che bevi el cafè”.