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lunedì 25 Novembre 2024
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Giurato: «L’espresso da Starbucks? Meglio che in molti celebrati bar»

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MILANO — Un caffè espresso da Starbucks? Il modo migliore per bere un buon espresso. Migliore di quello servito in molti celebrati locali italiani. Questo il parere fuori dal coro (anche se condiviso, magari a denti stretti, da molti addetti ai lavori) di Bruno Giurato apparso in un articolo di commento sull’autorevole sito di informazione e indagine Linkiesta, che volentieri riportiamo di seguito.

di Bruno Giurato

Buongiornissimo Kaffeee !1!!!!!!1 C’è la tostatrice verde e oro, c’è la botte di bronzo alta sette metri che si apre mostrando la camera di gassificazione, c’è il rumore dei chicchi, c’è l’aperitivo coi prodotti da forno (a legna) fatti sul momento da Princi, c’è l’open space di 3200 metri quadri e fuori ci sono le panchine, ci sono le felci, ci sono i rampicanti.

Starbucks è già lo sponsor delle palme in piazza Duomo, non stupisce che quell’inciampo di semafori malsincronizzati, bus e taxi che è piazza Cordusio -con Piazza Affari dietro l’angolo – sia diventata un’oasi.

Peccato per la scritta sbagliata dentro

Milano ispira i sogni? Ma quandomai. Milano non ispira un bel niente, semmai li realizza i sogni: è fatta di non milanesi, da Verga a Versace a Celentano a Zalone, che sognavano fuori e sono venuti qui a costruire.

Ma non basteranno i copy ignoranti per rovinarci il piacere del soggiorno in questo Starbucks. E nemmeno le critiche dei liturgici del caffè, quelli che si indignano perché un’invenzione del genio italico è stata fagocitata dalla multinazionale verde e i commentatori che si chiedono pensosi: “ci abitueremo al caffè nel bicchierone”?

In breve, i sovranisti di sta tazzina.

Già un caffè “normale” a Milano equivale a un caffè lungo in bar del Sud. L’idea dell’espresso milanese contempla una tazzina piena fino a cinque millimetri sotto all’orlo. Che è già una cosa da bogomili, altro che Starbucks. Per cui, di default, ti abitui a chiedere un caffè ristretto.

Perché, è il caso di dirlo la tipica situazione di chi conosce il caffè e va a prendere un caffè a Milano non nei bar amerikani, ma in quelli normali non è, in partenza, felicissima. Già un caffè “normale” a Milano equivale a un caffè lungo in bar del Sud.

L’idea dell’espresso milanese contempla una tazzina piena fino a cinque millimetri sotto all’orlo. Che è già una cosa da bogomili, altro che Starbucks. Per cui, di default, ti abitui a chiedere un caffè ristretto.

Nella metà dei casi il barista si dimentica di spegnere la macchina al momento giusto, se ne accorge (glielo leggi negli occhi), prova a rifilartelo lo stesso, a volte ribadendo il concetto ad alta voce: “un ristretto”, come se per qualche forma di persuasione/pensiero magico, la parola possa modificare la cosa.

E dopo un breve sguardo contro sguardo si rassegna a rifartelo, stavolta ristretto (per lui) e normale (per te).

La caffetteria hipster

Milano è il posto dove a fianco dell’ufficio trovi la caffetteria hipster, con una serie di miscele congolesi e brasiliane, l’arredamento di pino rosso e la barista dalla pelle chiara e la zimarra scura che appena chiedi un ristretto sorride, ripete “ristretto” (accento nordeuropeo), e accende la macchina.

Accende la macchina del caffè. La qual cosa basta a farti sognare il bar a fianco alla stazione di Napoli, che alle sette di mattina ha già fatto un centinaio di doverosi frettolosi (e favolosi) espressi, ha la macchina in pressione dalle cinque, e dove il barista ti mette sotto al naso la tazzina sommariamente sciacquata, dopo l’uso da parte del vicino coi baffi.

La “coffee culture”

Milano è appunto il posto in cui si sta diffondendo la cosiddetta “coffee culture”, che già terrorizza i consumatori italiani che abitano a Londra, a New York, e in altre città globali.

“Coffee culture” significa appunto macchine accese per l’occasione del caffè, schifezze con sapori strani, e flyer pensosi che hanno sostituito il caffè con la tecnicità, l’etica, l’idea del caffè. E le idee sono dispositivi di guerra al piacere.

Data la situazione non si vede che male possa fare Starbucks, che è tecnico, è bello, è piacevole, è coffee culture, ma soprattutto è un’oasi verde a Piazza Cordusio in cui si possono fare gli happy hour.

Per il caffè abbandoniamo pure il sovranismo italico di ‘sta tazzina e torniamo semmai a quello borbonico: basta comprare una napoletana, e seguire la ricetta di Laurino (Salerno). Per il resto c’è Starbucks.

Bruno Giurato

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