MILANO – Finalmente gli italiani possono tornare a godersi un rito antico e consolidato come lo è sicuramente quello della tazzina al bancone bar. Qualcosa che è diventato un tratto distintivo dell’italianità, come l’espresso e che con l’arrivo della pandemia si è dovuto interrompere per rispettare le restrizioni disposte dal Governo. Adesso che siamo riusciti a riappropriarcene, sembra un evento da celebrare e su cui riflettere. Interessante a questo proposito la riflessione che ha offerto l’analista politico Antonio Polito su corriere.it.
Bancone e caffè: siamo tornati in Italia
La leggenda racconta che Howard Schultz, l’uomo che fece di Starbucks il trionfo globale che oggi è, abbia scoperto in un viaggio a Milano come replicare il rito del caffè all’italiana. Il New Yorker, la sofisticata rivista simbolo della Grande Mela, ha dedicato più di un articolo a quella piazzetta di Roma sulla quale si affacciano i bar «Sant’Eustachio» e la «Tazza d’oro», l’università della caffetteria all’italiana, depositari di segreti di torrefazione e preparazione ormai mitici come la formula della Coca Cola. Un grande storico del Novecento, Eric Hobsbawm, sosteneva che con il «miracolo economico» l’Italia ha imposto nel mondo uno stile di vita unico, perché elegante ma accessibile a tutti, fatto di Lambrette e di macchine del caffè Gaggia.
Mentre sorseggiamo un espresso al bancone del bar, pratica da oggi finalmente riammessa, fermiamoci dunque un momento a riflettere su questo gesto, così veloce e sbrigativo eppure così tanto radicato nella cultura materiale del nostro popolo da esserne diventato un simbolo.
L’amministratore delegato di Starbucks capì qui da noi, quarant’anni fa, che non doveva vendere solo caffè. Che dietro il clamore delle voci e il tintinnar di bricchi dei piccoli caffè italiani si celava un’esperienza sociale di elevata qualità.
In un bar non si entra per prendere una dose di caffeina e consumarla
Come ci è risultato chiaro in tutta questa triste stagione dell’asporto, che ci ha costretto alla bestemmia del contatto delle labbra con la carta, corruttrice suprema del gusto dell’arabica (per quanto mi riguarda neanche la porcellana, ma solo il vetro consente appieno di gustare il caffè, se davvero bollente).
E infatti restavamo lì, con il nostro asporto in mano, a perder tempo davanti alla soglia del bar, nella speranza di intrecciare comunque la nostra solita mini-conservazione mattutina, parlare di calcio con il barista, scambiare un sorriso con la cassiera (la cassiera è un topos dell’immaginario erotico dei maschi italiani over 60), attaccare discorso con uno/a sconosciuto/a, he o she, e magari diventarne amic*, indignarsi per il qualunquismo del discorso politico che stanno facendo i due dietro di te, e se possibile contestarlo con il tuo qualunquismo di segno opposto, perché la mattina al bar siamo tutti uomini/donne qualunque.
I quasi duecentomila esercizi commerciali che spacciano «espresso» in Italia non sono perciò solo l’ossatura di un più grande esercito di venditori al dettaglio che rendono unica l’economia italiana (nel bene e nel male).
Sono anche dei dispensari di socialità e forse, chissà, di felicità
Io ho sempre considerato i bar dei quartieri dove ho abitato, soprattutto alcuni di loro, quelli che non chiudono mai, neanche la domenica o il 2 giugno, quelli che stanno aperti fino a tardi, come dei veri e propri presidi di civiltà, angoli illuminati in strade rimaste troppo a lungo deserte, dissuasori di crimine e devianze, aggregatori di umanità e di solitudini, rifugio senza uguali per i single, seduti a un tavolino con il loro pc mentre fanno finta di lavorare e invece non fanno altro che osservare, la cosa che a noi italiani riesce meglio subito dopo l’essere osservati.
Un palcoscenico della vita nazionale, che troppo a lungo non abbiamo calpestato.
Per dirla alla George Clooney: what else?