ROMA – Grande festa per il caffè con l’avvio della programmazione e progettazione di una bellissima nuova iniziativa dell’Università degli studi Roma Tre: il master di primo livello sulla bevanda. Per introdurlo, in occasione della Giornata internazionale del caffè, è avvenuto il workshop “Caffè aRomaTre”, organizzato dal corso di laurea in Scienze e Culture Enogastronomiche del Dipartimento di scienze dell’Università degli studi Roma Tre, in collaborazione con l’Accademia del Caffè Espresso e la Federazione italiana dottori scienze agrarie e forestali (Fidaf)
Caffè aRomaTre: nel chicco si legge il futuro
Tutti i grandi movimenti, l’economia, l’ecologia, le migrazioni, la botanica, l’incontro delle specie, il commercio, la finanza, la società, la disuguaglianza: tutto è contenuto nel chicco. Per questo motivo, comprenderlo, significa anche capire dove vogliamo far andare il mondo: essendo specchio della grande ingiustizia sociale a cui si deve porre rimedio.
Studiare il caffè significa esplorarne tutti gli aspetti con un approccio interdisciplinare.
L’idea del Master nasce da una persona, Massimo Battaglia dell’Accademia del caffè espresso La Marzocco, che ha chiesto di collaborare con il mondo dell’impresa, per mettere a punto un percorso didattico di alto livello sul caffè. La seconda commodity dopo il petrolio, in cui l’Italia è leader nel mondo sia per la torrefazione che per la produzione di macchine dell’espresso. C’è tanto spazio per crescere in questo settore e da qui la volontà di proporre un master per sviluppare le competenze dei professionisti di domani.
Massimo Battaglia: il caffè, una bella storia da raccontare
Per l’Accademia del caffè espresso, il responsabile della ricerca, Battaglia, presenta la rinnovata fabbrica de La Marzocco. Una delle principali imprese che produce macchine espresso. “Sono un po’ le Ferrari in questo settore – le definisce così Battaglia. Al suo interno c’è una scuola della materia e poi un contatto diretto con l’origine del chicco, attraverso il cuore verde dell’Accademia, la serra che riproduce fedelmente una piantagione. Soli 5/6 chilogrammi di caffè all’anno, che però sono un simbolo della missione La Marzocco. Che continua con la sezione dedicata al verde, quella per il sensory e della degustazione.
Con l’esperto, il viaggio leggero sulla storia del caffè, dall’Etiopia a Vienna con la prima caffetteria, passando per l’Olanda e le colonie, sino ai giorni d’oggi. Con uno sguardo dettagliato sui 70 Paesi di coltivazione (il Brasile è il principale con 62 milioni di sacchi prodotti all’anno, e il Vietnam lo segue nonostante il suo ingresso appena da 20 anni), 12 dei quali basano la loro esportazione proprio su questo prodotto agricolo. Prodotti circa 130 milioni di sacchi da 60 chilogrammi e il 70% di questo è esportato (65% è Arabica e il 35% è Robusta). La sua commercializzazione e trasformazione per il consumo è gestita però principalmente da poche società transnazionali.
Eppure, anche in questi luoghi lontani, c’è l’Italia: si ritrova andando indietro nel tempo, nelle migrazioni di massa in Brasile del ‘900 e poi nel lavoro degli italiani in Etiopia, con l’introduzione di una coltivazione massiva di caffè. Presenti anche in Costa Rica, con la fondazione di un villaggio e piantagione che ancora oggi porta il segno del made in Italy dietro la sua nascita.
La catena produttiva del caffè è lunga, complessa e debole nelle sue prime fase, nelle famiglie dei coltivatori: troppi limiti strutturali insisti nelle attività agricole dei luoghi dove si coltiva. Condizioni insufficienti per lo sviluppo sociale e produttivo; marketing con poco valore aggiunto.
Sono presenti tantissimi piccoli produttori e consumatori, con una barriera tra di loro: bisognerebbe avere un maggiore collegamento tra le origini e il consumo, si migliorerebbe la condizione dei lavoratori.
Esistono un nord e un sud del mondo del caffè
Il primo consuma, il secondo produce. Il primo è virtuoso e produce ossigeno, il secondo invece usufruisce delle risorse e crea anidride carbonica. E questo senza considerare l’emergenza rappresentata dalla Cina come potenziale consumatore assiduo negli anni che verranno.
Cosa sta succedendo nelle piantagioni di caffè da un punto di vista climatico: negli ultimi 100 anni, il riscaldamento globale è diventato sempre più pressante. Il caffè in questo quadro potrebbe far la differenza, perché presente in tanti parti del mondo e tutte punti di riferimento sul tema.
Il ciclo del caffè è molto lungo per la maturazione
Con l’aumento dell’umidità e della temperatura, così come delle piogge intense o del vento, la produttività di questo prodotto diminuisce. Questo cosa comporterà? Che si consumerà sempre più caffè, ma ce ne sarà molto meno a disposizione. Un trend che si è affermato già in questi anni: nei prossimi ce ne sarà bisogno per 30 milioni di sacchi, ma al contrario ci sarà un calo di circa un 50/70% della produzione di caffè di qualità. Nei prossimi 30 anni, ci saranno delle zone a coltivazione di cereali o di caffè dove ora non si produce niente come ad esempio nella Cina del nord o nel mediterraneo: prendiamo l’esempio palermitano del Caffè Morettino.
Dall’altra parte però, i Paesi produttori non si sono dimenticati del cambiamento climatico e per questo stanno portando avanti progetti virtuosi: in Costa Rica, in Kenya, in Brasile, in Guatemala, gli esempi di piantagioni che vogliono migliorare le condizioni ambientali, difendendo gli equilibri dell’ecosistema locale.
Dietro la tazzina e la sua qualità ci sono molteplici fattori che il consumatore medio ignora: l’altitudine, la temperatura, la piovosità, la varietà botanica, il terroir, la processazione, il metodo di raccolta e di essicazione, modi di fermentazione particolari come quella anaerobica.
I residui organici che derivano dalla prima lavorazione sono potenzialmente inquinanti se non vengono trattati e smaltiti correttamente. Possibili però sono gli utilizzi che possono esser sfruttati per il futuro, dando valore a questa potenziale fonte energetica. Così come le acque di lavorazione, perché ricchissime di zuccheri.
Ma ci vuole anche attenzione verso un tipo di sostenibilità sociale e non solo ambientale, passando per l’educazione degli stessi coltivatori per dar loro gli strumenti necessari per valorizzare il proprio lavoro e coltivando chicchi di qualità da proporre in commercio.
Qualche dato sui consumi
A Caffè aRomaTre, Gianfranco Diretto, dall’Università degli Studi di Napoli, ora ricercatore presso l’Enea, collaboratore con La Marzocco sulla ricerca della composizione molecolare sugli specialty: con lui inizia la tavola rotonda “La scienza in una tazzina di caffè”, le molecole
Quando parliamo di molecole del caffè si deve pensare che in realtà si tratta di un seme, dal punto di vista chimico, molto ricco. Questa è un’altra anomalia: perché il seme di solito è ritenuto un tessuto di riserva dal punto di vista chimico, perché per evoluzione, le piante hanno investito sulla produzione di frutti che raccolgono il seme e sono colorati e zuccherini per attrarre chi poi li diffonderà.
Il caffè in questo è un unicum, perché racchiude nel seme più di 1500 molecole, di cui oltre 850 volatili e oltre 700 non volatili. Le volatili faranno parte degli aromi, le non volatili sono solubili o liposolubili (si sciolgono nell’olio). Le liposolubili partecipano al corpo del caffè, le altre idrosolubili partecipano a conferirne il gusto e solo in parte alla crema.
Le molecole poi si trasformano: i fattori che influenzano la composizione chimica del caffè derivano dalla genetica delle diverse specie (Arabica-Robusta), le caratterizzazioni dell’ambiente di coltivazione, il metodo di lavorazione, la tostatura dal verde.
Quando si passa dal verde al tostato, i cambiamenti sono tanti: durante il processo i componenti che non subiscono alterazioni ma addirittura aumentano, sono gli alcaloidi (caffeina) e i lipidi.
Altre molecole invece non sono presenti originariamente e che nascono in seguito alla tostatura, le melanoidine: associate al colore scuro, sono molecole complesse composte da zuccheri e amminoacidi generate dalla reazione di Maillard, che hanno effetti benefici sull’organismo (per esempio sul diabete, sugli epatocarcinomi e malattie cardiovascolari).
Altre molecole che subiscono delle modifiche nella tostatura, sono quelle associate al gusto: gli acidi alifatici sono quelli principali, ovvero il citrico, il malico e il lattico (prodotto soprattutto durante la torrefazione e ha un ruolo importante sulla crema del caffè).
Un’atra classe sono gli acidi fenolici, che conferiscono in genere il retrogusto amaro. Un gruppo piuttosto esteso nel chicco di caffè, che ha un alto potere antiossidante.
Infine, una situazione più eterogenea riguarda gli amminoacidi, prodotti attraverso la degradazione delle proteine. Sono presenti in tracce nel chicco maturo, perché a loro volta da liberi sono convertiti in molecole volatili (aroma), in melanoidine e più in generale contribuiscono al gusto a seconda della tipologia. Si possono suddividere in tre gruppi: umami (aspartame, glutammate), dolce, amaro.
Cosa è possibile fare di tutte queste molecole misurate?
Formare un’impronta chimica del caffè. Le applicazioni sono molteplici: si può determinare l’origine di un chicco, studi sul processo industriale, la qualità della bevanda.
Enea ha partecipato al progetto POR “Cometa” finanziato dalla Regione Lazio e ordinato da Danesi Caffè, con Crea e Genochron, per lo studio del processo di tostatura per definire gli elementi più di rilievo associati alla qualità dell’espresso.
E ora in corso uno studio con l’Accademia del caffè espresso sugli specialty provenienti da 13 Paesi produttori.
Elisabetta Moneta, di Crea, “La qualità sensoriale” a Caffè aRomaTre
Quali sono le metodiche per studiare la qualità sensoriale del caffè, che è oggettivamente misurabile. Tra le sue caratteristiche, ci sono quelle sensoriali. Nasce come risposta all’interazione di tutti i sensi nel momento in cui si consuma un prodotto.
La percezione tattile in bocca del corpo della bevanda è importante, ma lo sono di più il gusto (dolce, amaro, umami) e l’olfatto (ci fa riconoscere l’alimento in bocca). Senza quest’ultimo manca un passaggio di comprensione aromatica che completa l’esperienza.
Quando parliamo di odori, ciò che arriva ai nostri recettori sono le molecole volatili. Ad oggi, più di 1000 composti volatili sono stati identificati nel caffè in concentrazioni variabili tra mg/kg (ppm) e ng/kg (ppt). La maggior parte di essi si forma durante la tostatura.
Solo 30 o 40 di questi determinano la percezione dell’aroma.
Quali sono gli approcci di studi?
L’assaggio professionale, praticato prevalentemente dagli addetti ai lavori, assaggiatori esperti che operano in azienda. In grado di individuare pregi o difetti a livello organolettico, duranti le fasi di produzione del caffè, dal chicco verde alla bevanda. Sono in grado di paragonare caffè di origini diverse, studiare e stimare la composizione e il grado di tostatura che ha subito il chicco.
Questi professionisti possono avvalersi di alcune schede di valutazione o delle ruote sensoriali per definire gli aromi che emergono positivamente o negativamente.
Un altro approccio è dato dai metodi sensoriali veri e propri che rispondono a molte norme di riferimento. Quello più classico è l’analisi del profilo descrittivo, di tipo quali-quantitativo. I dati sono soggetti a una validazione statistica, come se fossero prodotti da uno strumento di misura. Vengono eseguite da persone preparate senza condizionamenti, importanti per produrre dei dati che possono supportare la comprensione del profilo globale del prodotto.
Nella valutazione qualitativa rientra anche lo studio tra gruppi di consumatori non addestrati, per misurarne il gradimento e la preferenza. Le risposte sono condizionabili dal contesto, dalla genetica, dai ricordi personali, e sono quindi influenzate da fattori intriseci ed estrinseci.
Carla Severini, Università di Foggia, “La tecnologia” a Caffè aRomaTre
Focus su tre aspetti: il packaging, il grinding e il brewing. Il tutto poi termina nella degustazione in tazza attraverso l’analisi sensoriale.
L’estrazione, un momento analizzato partendo da diverse domande: se la materia prima, il caffè tostato, è sempre la stessa, può essere diverso il risultato dell’estrazione? Se sì, perché? E’ possibile prevedere la qualità del caffè in tazza attraverso una precisa regolazione delle condizioni di processo?
L’indagine svolta per una torrefazione durata 20 anni sul campo (2000-2019), è consistita nella visita di più di 1200 esercizi localizzati in 6 aree geografiche del Centro e Nord Italia, raccogliendo circa 20mila dati.
Si chiedevano diverse informazioni: le caratteristiche della macchina, la durezza dell’acqua, la dose, il colore, la densità del caffè macinato, infine, il caffè in tazza (volume, consistenza della crema, altezza, solidi estratti%).
Ulteriori analisi hanno fatto emergere delle differenze geografiche, legate a fattori culturali (in Lombardia piace più il caffè lungo, in Romagna quello stretto). La discriminazione è stata anche quella degli anni di indagine: tra i primi anni e gli ultimi del primo decennio di indagine, si è notata una differenza evidente. Cosa era successo? L’azienda aveva messo in atto un progetto per la formazione degli operatori dietro al bancone, cambiando completamente le caratteristiche del caffè in tazza servito nei bar presi in esame.
Si è misurato il peso delle singole variabili: in ogni caso, la fase di macinazione rientrava sempre tra quelle che influenzavano maggiormente certe caratteristiche del caffè, come il volume. Questa fase quindi è estremamente importante e su di essa si dovrebbe lavorare in termini di attrezzatura a disposizione dei baristi.
In ogni caso anche utilizzando le stesse condizioni: miscela, tempo di estrazione, livello di macinatura, dose di macinato, pressione sul panello, il risultato ha confermato delle differenze del volume dell’espresso e della temperatura (tra 16, e 21 ml) (69-76 gradi). C’è quindi una variabilità intrinseca da analizzare e poi standardizzare.
Packaging: il classico pacchetto “mattonella”, la scatola di metallo, la busta in alluminio dotata di valvola solo in uscita, le cialde, le capsule (che dovrebbero garantire una qualità standardizzata, ma che in realtà non sempre la possono offrire).
La percezione percepita: anche la tazza è packaging. A parità di qualità del caffè, questa veniva percepita in modo migliore in tazze di colori diversi.
Pasquale De Muro, docente Università RomaTre: “L’economia politica globale del caffè”
Il modo in cui viene creato e distribuito il valore del caffè (Global value chain). L’idea è che da quando il caffè viene piantato fino ad arrivare in tazza, cresce incredibilmente di valore dal punto di vista di mercato e non soltanto. Questo attraverso le diverse fasi lungo la filiera, che sono numerose: non si tratta semplicemente di un processo lineare in cui intervengono tanti attori economici molto distanti e diversi tra di loro. Fattori che creano criticità: in particolare esiste un divario importante tra il mondo agricolo del caffè, localizzato soprattutto nella fascia tropicale nei Paesi a basso e medio reddito, e quello del consumo della bevanda, concentrato nei Paesi ad alto reddito.
Questa lunga catena è una sequenza di mercati: ce ne sono tanti che si intrecciano in una vera e propria rete con molte diramazioni. Alcune molto lontane, alcune locali, altre globali. Si tratta di catene del valore che hanno enormi eterogeneità degli attori che si muovono al loro interno. Esistono una miriade di piccoli operatori, miliardi di consumatori e in mezzo, i “lati corti” del mercato. Verso il cuore di questa rete ci sono quelli che hanno maggiore potere contrattuale e che quindi influiscono sul prezzo del caffè.
In particolare, un elemento molto debole della catena dal punto di vista contrattuale, sono i piccoli coltivatori: 20-25 milioni di famiglie che producono circa l’80% del caffè mondiale, la maggior parte di queste, povere.
Il concetto importante quindi è che questi attori, grazie alla loro posizione all’interno della rete di produttiva hanno un potere contrattuale molto diverso. Questo instaura dei rapporti asimmetrici che determinano il prezzo: il risultato non del bilanciamento tra domanda e offerta, bensì dalle dinamiche esistenti tra piccoli contadini e consumatori, determinate da grandi operatori che muovono grandi quantità di prodotto. Sono loro che in parte contribuiscono alla distribuzione della ricchezza lungo la filiera.
Le aziende hanno quindi una grande responsabilità sociale: la mancanza di informazione e di educazione sulla bevanda nei confronti del consumatore ha delle conseguenze.
Facendo un esempio: del tazzone americano che costa 2,80 dollari al consumatore, si traduce nelle tasche del coltivatore ad appena 0,07 centesimi di dollari. L’opacità della catena è un problema: tutti ignorano questioni di tracciabilità e trasparenza.
Un accenno a come affrontare questi problemi: ci sono risposte locali, globali, dal basso e dall’alto. I governi insistono su determinate regolamentazioni, la comunità internazionale si uniscono in progetti di cooperazione allo sviluppo; soprattutto c’è un lavoro di formazione e ricerca nel sud del mondo.
Loretta Bacchetta, Enea, Università RomaTre: “Il riciclo degli scarti” chiude la prima tavola rotonda del Caffè aRomaTre
La bio economia offre un’opportunità interessante, che sposta l’attenzione da un modello agricolo basato su un prodotto, verso i sottoprodotti e gli scarti di una produzione a livello industriale.
I sottoprodotti della filiera del caffè: due miliardi tazzine consumate a livello globale al giorno originano foglie, fiori, residui di ciliegie e la polvere tostata estratta.
Questi ultimi due sono gli elementi più consistenti: circa il 45% delle ciliegie diventa uno scarto agroalimentare. Se si prendono in considerazione il metodo essiccato e lavato, si hanno a che fare con la cascara (la buccia del chicco essiccato, matrice molto ricca)
Ovviamente ciascuno scarto ha la sua determinata composizione chimica di cui tener conto in fase di riciclo. Le applicazioni sono tantissime: sono molto gli studi che hanno dimostrato che si possono ricavare compost, biogas, funghi, integrazioni in alimenti per animali e umana, bioassorbenti e biomateriali, estrazione di biomolecole ecc.
Ovviamente però lo smaltimento di questi residui resta una problematica: devono esser preparati per questo passaggio finale.
I progetti portati avanti con Enea con El Colegio de Michocan A.C., Iila, Accademia del caffè espresso e Sioi.