lunedì 23 Dicembre 2024
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L’espresso al banco? «Un rito di cui si sente la nostalgia ma che adesso è a rischio d’estinzione»

Massimo Cerulo, professore di Sociologia all’Università di Perugia e alla Université Paris V, autore de La danza dei caffè (Pellegrini editore), sta scrivendo per il Mulino Andare per caffè storici. Spiega a Gastronomika che senza la scenetta del ”fammi il solito” e della tazzina tiepida che ci compare davanti nel tempo di un saluto, perderemo più di un pezzo della nostra quotidianità

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MILANO – Il caffè al banco era un’abitudine sbrigativa ma quotidiana, che proprio per questa sua frequenza sta ancora molto a cuore a tutti gli italiani. La pausa al volo tra una scadenza e l’altra, per spezzare le giornate lavorative. Una scusa per interrompere per qualche secondo la vita frenetica. Un modo per entrare in contatto con gli altri senza però perdere troppo tempo. Ritornare produttivi, dopo la dose caffeinica necessaria, servita dal bravo barista. Un rito, sì, che però con lo scoppio della pandemia è stato completamente spazzato via. Tornerà mai come prima? Abbiamo intercettato per la nostra rassegna stampa questa opinione a riguardo, da linkiesta.it, di Ernesto Brambilla.

E voi che cosa ne pensate?

Caffè al banco: un lontano ricordo

Il bancone del bar è vuoto. Sarà vuoto ancora per un po’. È una costante in tutte le esternazioni dei baristi e dei gestori, in questi giorni un po’ confusi in cui tanti cercano di immaginare il “new normal” di bar e caffè. Sarà con il servizio al tavolo, sarà nei dehors esterni con distanze dilatate. Al banco, no.

Quando si prova ad immaginare la nuova modalità di consumo dentro il bar, pare certo che il caffè al banco si riconfermi prima vittima dell’emergenza sanitaria in questo settore. Lo è stato fin da subito, dai primi di marzo, con le prime regole di distanziamento sociale causate dall’emergenza Covid-19: gli spazi ristretti – tra avventore e avventore, ma anche tra cliente e barista – rendono impossibile indugiare in quel modo di consumare il caffè in tazzina a cui siamo particolarmente affezionati. Di più: è quasi solo nostra, solo italiana, questa passione per il bancone del bar.

Massimo Cerulo, professore di Sociologia all’Università di Perugia e alla Université Paris V, autore de La danza dei caffè (Pellegrini editore), sta scrivendo per il Mulino Andare per caffè storici.

Spiega a Gastronomika che senza la scenetta del ”fammi il solito” e della tazzina tiepida che ci compare davanti nel tempo di un saluto, perderemo più di un pezzo della nostra quotidianità

Perché «il banco rappresenta la socialità italiana. La quale è un po’ come l’onda del mare, lambisce e si ritira, si apre e si chiude. Il bancone del bar è una linea di confine che permette di incontrare il barista e gli altri frequentatori se lo vogliamo, ma ci consente anche di restare chiusi nel nostro privato, concentrarci sul consumo veloce in tre-quattro minuti, se non siamo in cerca di socialità. Possiamo diventare tutt’uno col banco, stanziali, a caccia di socievolezza. Alimentiamo la nostra sfera pubblica, costruiamo capitale sociale: il caffè al banco diventa motore di pettegolezzo, casella postale di vicinato, parentesi di raccolta informazioni – immaginiamo il bar di provincia, ma non solo, che mette in scena lo spettacolo dei personaggi da bancone».

Il fascino del caffè al banco è nel dualismo del bancone

Infatti, possiamo anche usarlo come strumento momentaneo di pausa e riflessione, senza per forza investire in un contatto più approfondito. «Perché», spiega ancora Cerulo, «tutti gli italiani sanno che il caffè al banco è sacro, è pausa. E nessuno si permette di disturbare se intuisce che l’avventore è in cerca di solitudine». Insomma, il bancone da una parte è luogo della socialità più colorita, dall’altra garanzia di una solitudine estrema.

Secondo il Consorzio di tutela del caffè espresso italiano tradizionale, consumiamo 5,9 kg di caffè l’anno pro capite

Non siamo in vetta nella classifica (c’è la Finlandia in cima, con 12 kg) perché siamo la nazione dell’espresso, e dunque della tazzina da appena 25 ml. Immancabile abitudine per il 93% degli italiani, mentre l’americano e il caffè d’orzo restano una nicchia con il 3%. Ma il piacere del banco bar – così caratterizzante dell’italica passione per il bar di quartiere – non è nato assieme al caffè in tazzina. In altre parole, non è così diretto il legame espresso-consumo veloce al banco.

«C’è voluto del tempo, è servito il cambio di passo della società dopo la Guerra», spiega Enrico Maltoni. Titolare di Officina Maltoni, a Novafeltria – 30 km da Rimini -, Maltoni si occupa di storia, cultura e restauro di macchine del caffè espresso. La sua collezione è confluita nell’esposizione del Mumac a Milano, il Museo della macchina per caffè aperto dal Gruppo Cimbali.

«Il caffè espresso come lo conosciamo oggi ha origini databili nel 1884, con il brevetto di Angelo Moriondo, a Torino. Quel documento testimonia l’invenzione della prima macchina a vapore e a pressione per il caffè espresso, per servire un gran numero di tazze in poco tempo. Affascinante la dicitura che appare sul brevetto: ”Nuovi apparecchi a vapore per la confezione economica ed istantanea del caffè in bevanda”».

I caffè intesi come locali, esistevano già. Però ci sarebbero voluti decenni per cominciare a parlare di vera diffusione dell’espresso

«Il caffè, bevanda già nota da noi sin dal 1500, era per classi sociali elevate e da gustare con tutta calma, in salette riservate dove era una presenza importate sui menu insieme ai liquori caldi. Al Caffè Fiorio, in via Po a Torino, si ammira ancora una di queste sale rimasta integra, un vero tuffo nei primi del ‘900».

Il caffè al banco, l’espresso, non è nemmeno un’ipotesi

«La sua diffusione comincia dopo gli anni ’20, ed è graduale. Poi interviene la Seconda Guerra Mondiale, e si ferma tutto. L’esplosione è nel dopoguerra, tra boom economico e nuovi e proficui legami dell’Italia con alcuni paesi produttori, come il Brasile». Succedono alcune cose interessanti, dal prezzo stabilmente basso, che pone la bevanda in una fascia popolare, al moltiplicarsi dei produttori di macchine professionali per l’espresso (marchi storici come Faema, Gaggia, Rancilio, La Cimbali, Pavoni, San Marco, Victoria Arduino). «Nel 1948», spiega Maltoni, «nasce la macchina a leva, inventata da Achille Gaggia, che migliora tempi e qualità dell’estrazione.

Porta più pressione sul pannello del caffè, a 9 atmosfere, e grazie a questo l’espresso al bar assume una nuova dimensione. Le prime macchine richiedevano un tempo di preparazione oltre il minuto e mezzo. Oggi siamo a 25 secondi: significa che, a partire dalla richiesta fatta al barista, in 40 secondi si ha una tazzina sul banco».

La velocità si sposa benissimo, sin da quegli anni, con la convivialità all’italiana

E con i grandi flussi di pendolari che approcciano i bar delle città o vicino alle fabbriche, tutti insieme, al mattino o nella pausa caffè. Il sociologo Cerulo aggiunge un’immagine: «Gli autogrill lungo l’autostrada del Sole, infrastruttura simbolo dell’Italia del boom. Luoghi di ristoro e risveglio dell’automobilista, per una enorme quantità di persone. Il bancone rappresenta l’accoglienza delle grandi masse ed è pensato per soddisfare tante richieste».

La verità è che il consumo del caffè al banco si sposa perfettamente con l’esigenza di rispettare le “3 C” alla napoletana del caffè espresso

Deve essere caldo, comodo e carico. E l’essenza vera della nostra bevanda preferita. «Regola aurea del caffè, che vale per tutte le tipologie di bar. La temperatura si mantiene meglio con un servizio veloce, e con essa l’effetto di ricarica del caffè, e il banco, come abbiamo sottolineato, può al contempo rappresentare sia un momento di piacere sociale che di… piacevole solitudine. Speriamo davvero di non perderlo, quel momento».

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