MILANO – Conoscere il caffè significa anche esplorarne le terre d’origine. In questo senso sono preziose le esperienze dirette in piantagione, come quelle proposte e organizzate da Umami Area in Honduras. Riportiamo la testimonianza di chi ha voluto toccare con mano la vita di questa parte del mondo, in un’intervista a due gestita da Andrej Godina a Giorgio e Giulia Caballini di Sassoferrato.
Una domanda semplice di introduzione. Cos’è Dersut Caffè? Chi è Giorgio Caballini?
“E’ l’acronimo di De Rosa-Suttora, quello dei due triestini che hanno fondato lazienda. Con sede legale a Trieste e quella operativa a Conegliano. Fondata nel 1947. Mio padre, su suggerimento del nonno materno, l’ha rilevata nel 1949. Da quel momento l’azienda ha cominciato a crescere, mio padre l’ha portata a un ottimo livello e abbiamo collaborato assieme per 30 anni.
Da 20 anni guido l’azienda di famiglia con la mia primo genita Avv. Lara e da tre anni, con la mia seconda figlia, la dottoressa Giulia, presente oggi a questa intervista.”
Se volessimo descrivere la sua azienda possiamo dire che è un’azienda prettamente legata al territorio del triveneto.
Qual è la sua filosofia e che tipo di sviluppo ha conosciuto negli ultimi anni?
“Effettivamente la quota di lavoro maggiore è in Italia, principalmente nell’area del Triveneto dove lavoriamo nel settore Horeca. All’estero siamo presenti in alcuni mercati come per esempio quello tedesco, quello austriaco e quello ceco.
La filosofia aziendale in cui noi crediamo è quella della qualità. Infatti al di sotto di un minimo livello qualitativo la materia prima non viene acquistata, poniamo sempre un forte accento alla qualità della bevanda.”
Una domanda sui locali Dersut
Sentiamo sempre parlare di catene di caffetterie all’estero, ma poi in Italia, abbiamo degli esercizi pubblici gestiti da privati. Qual è la vostra esperienza? Com’è nata l’idea della catena dei locali Dersut e che tipo di risultato porta oggi in azienda?
“L’idea di proporre al mercato un format di caffetteria marchiato “Dersut” è nata perché le caffetterie a marchio danno sul mercato un’immagine superiore all’azienda agendo da moltiplicatori di riconoscibilità del nostro marchio e della qualità del nostro caffè.
Con lo sviluppo della nostra catena di caffetterie vogliamo non tanto attirare il cliente tradizionale del bar italiano ma offrire a una clientela esigente un prodotto preparato bene. Curato nei dettagli e che possa esprimere l’anima dell’espresso Dersut al suo
meglio.
L’azienda segue e incentiva le aperture di caffetterie Dersut prevalentemente nel Triveneto, un territorio ristretto facilmente raggiungibile dai nostri rappresentanti che possono visitare i nostri fidati clienti settimanalmente.”
Ci sono diverse linee di caffetterie?
“Sì. La Bottega del Caffè, Giornale Caffè e L’italiana Caffè oltre a una quarta poco sviluppata che è quella del Caffè Light. In queste caffetterie ci sono tipologie di prodotto leggermente diverse, dalla Bottega del Caffè che serve espressi in tutte le sue varie declinazioni mentre le altre due linee invece, vendono anche prodotti salati.
La volontà dell’azienda è quella di sviluppare ulteriormente questo segmento di mercato
con la speranza che queste linee di caffetterie ci rendano ancora più riconoscibili di quanto lo faccia la fornitura a un bar tradizionale. La nostra catena di caffetterie è certamente una delle più sviluppate nel Nord Italia con 120 locali, dislocati nel Triveneto, una macro regione che conta circa 10 milioni di abitanti.
Se consideriamo il numero delle caffetterie per il numero di abitanti credo che da questo punto di vista siamo ben rappresentati.”
Parliamo ora del vostro viaggio in piantagione. Da dov’è nata questa idea di andare in piantagione anche con sua figlia Giulia e come mai è stato scelto l’Honduras
“L’idea è nata innanzitutto da mia figlia Giulia che mi ha espresso il desiderio di partecipare a un percorso di formazione in un paese di origine del caffè e io poi non l’ho voluta lasciare andare sola. Ho capito in seguito che sarebbe stata un’esperienza molto valida anche per me che, nella mia esperienza professionale avevo solo viaggiato una volta in Brasile.
E’ stata la prima volta che durante un viaggio in piantagione ho avuto modo di apprendere tutte le tecniche dalla coltivazione, i diversi metodi di raccolta e di potatura, nonché ho avuto modo di approfondire e toccare con mano tutti i processi di lavorazione delle ciliegie post raccolta.
Il viaggio per quanto mi riguarda è stato, per questo molto, molto istruttivo. I giorni in Honduras non sono stati interessanti solamente dal punto di vista tecnico ma anche dal punto di vista umano perché mi hanno permesso di conoscere i coltivatori di caffè che sono persone genuine, sincere, appassionate e lavoratori instancabili.
Il viaggio in piantagione mi ha permesso di conoscere il lato umano del farmer, un qualcosa che gli italiani hanno un po’ perso.”
Più nel dettaglio quindi, come è stata questa esperienza per lei, sia dal punto di vista tecnico che da quello umano?
“Ho deciso di partecipare al campus in Honduras anche perché sto progettando la costruzione di una serra riscaldata con celle fotovoltaiche nella nostra nuova sede che avrà una superficie di circa 1000 metri quadri.
In questa struttura troverà spazio una mini piantagione di caffè. In Honduras ho appreso quali sarebbero le difficoltà per applicare le tecniche agricole alla pianta sia per la semina, la potatura, la raccolta delle ciliegie, la lavorazione del caffè lavato e non lavato, l’essicazione dei chicchi in pergamino. Tutto è stato interessante e utile perché saltando qualche passaggio, non avrei avuto un quadro così completo.”
Dopo questo viaggio quali nuovi spunti ha raccolto in Honduras per il suo lavoro?
“Il viaggio in Honduras mi ha permesso di capire meglio la differenza tra i differenti processi di lavorazione del caffè, in particolare quello lavato e quello naturale, oltre a tutte le altre tipologie di lavorazione che ci hanno illustrato tra cui il semi lavato e il cosiddetto honey. Questo è ciò che un torrefattore, stando in Italia, ha conosciuto solo in teoria leggendolo sui libri e che ora ho visto mettere in pratica.
Effettivamente toccare con mano e partecipare ai processi di lavorazione del caffè è tutta un’altra cosa. Io finora avevo fatto 47 anni di teoria e in Honduras ho fatto 10 giorni di pratica.”
Che cosa mi può dire dal punto di vista umano?
“Questo è un aspetto integrante dell’esperienza dell’Umami Coffee Camp sul quale ho da sempre insistito. Il format di Umami è un percorso di formazione che connette il torrefattore con il produttore di caffè, è qualcosa che manca e credo sia un passaggio doveroso per poter raccontare una storia di prodotto al consumatore. La sua esperienza più interessante è stata forse quella con Francisco Villeda “Panchito”.
Che tipo di esperienza ha portato a casa?
“Panchito e la sua famiglia mi hanno impressionato particolarmente: lui è un grande lavoratore, un appassionato di caffè e nonostante la sua menomazione fisica avendo perso un braccio quando era giovane nell’esercito, l’ho visto fare qualsiasi attività fisica, come un uomo normale.
Nonostante il suo problema riesce infatti a compiere ogni lavoro in modo completo, addirittura meglio di tanti altri. Panchito mi ha colpito per ciò che sa fare in piantagione: guida il pickup dell’azienda, porta i sacchi di caffè sulla schiena con estrema disinvoltura, maneggia il macete per qualsiasi attività di taglio in finca come erba e alberi di ogni tipo.
Durante il campus Panchito è sempre stato con noi e mi ha colpito la sua estrema disponibilità e generosità. Un’altra cosa che mi ha stupito sono le condizioni nelle quali le famiglie dei coltivatori vivono in particolare le condizioni più che modeste delle loro case. Per fortuna gli strumenti e i mezzi per la produzione del caffè e il lavoro in piantagione non mancano. Insomma, ho visto come la comunità locale è in grado di investire il capitale molto di più nella propria attività trascurando la vivibilità dell’ambiente familiare e questo rappresenta per me un gran segno di buona volontà, cosa che qua in Italia avevamo in passato e che ora abbiamo parzialmente perso.”
Che tipo di impressione le ha fatto visitare il beneficio secco di lavorazione del caffè a Santa Rosa, l’azienda Coffee Planet Corporation dove il caffè viene lavorato per l’esportazione?
“Sono molto organizzati, come azienda certamente possiederanno dei canali privilegiati per poter operare, in una realtà che purtroppo è gestita dai grandi numeri delle multinazionali che spesso prevalgano su queste piccole realtà. Credo che noi torrefattori sensibili alla qualità dobbiamo unire le forze per far sì che si riesca ad inserire più umanità nel processo di produzione e compra vendita del caffè sui mercati internazionali. Su questo aspetto noi sicuramente ci impegneremo.”
Una domanda a Giulia: com’è stato per lei il Campus?
“Un’esperienza bellissima. Ho tanto desiderato farla al punto un po’ da trascinare anche mio padre. Devo confidare che sono stata maggiormente colpita dal lato umano di questa esperienza piuttosto che dal lato tecnico. Durante il nostro soggiorno nel paese abbiamo conosciuto delle persone estremamente umili, che si danno da fare e fanno fatica con le proprie mani, sono tutte molto generose. Il campus mi ha permesso di capire e approfondire il procedimento di lavorazione del chicco, le lavorazioni per l’esportazione e la valutazione in tazza.
Tutto questo io l’ho sempre visto solamente all’arrivo dei sacchi di caffè in azienda e
non sospsettavo che ci fossero dietro così tanti passaggi per lavorararlo. Per me quindi è stato davvero interessante.”
Qual è stata l’esperienza di aver vissuto il Campus con nuove generazioni di altre torrefazioni come Caffè Trucillo e Caffè Costadoro? Si sono creati dei rapporti di amicizia?
Giulia: “Sicuramente. Per me il fatto che ci fossero delle altre ragazze più o meno coetanee, che facessero il mio stesso lavoro, è stato un valore aggiunto. Dopo il Campus in piantagione continuiamo a sentirci e a confrontarci dal punto di vista lavorativo, in realtà non ci sentiamo poi tanto in competizione.”
Rirprende Giorgio Caballini: ”Credo che quando si lavora con correttezza anche la competizione faccia bene. L’importante è non pugnalarsi alle spalle. “
Andrej Godina: “Sì, sono d’accordo, nel mercato del caffè di qualità c’è lavoro per tutti. Personalmente sono convinto che questi legami di conoscenza e confronto tra aziende siano un momento importante di crescita professionale soprattutto per le nuove generazioni che in qualche modo sarebbe importante facessero filiera assieme.”
Il Conte: ”Il fatto molto positivo è che nel giro di un paio d’anni ho intenzione di ripetere questa esperienza, magari anche tornando proprio in Honduras.”
Forse ci sarà l’occasione di invitare Panchito in Italia per l’inaugurazione del nuovo stabilimento
Giorgio Caballini: ”L’avvio dei lavori di costruzione del nuovo stabilimento sono in procinto di iniziare, attualmente il decorso dei 90 giorni per avere tutte le autorizzazioni è iniziato, per cui conto di poter già porre la prima pietra a breve e vedere la fine dei lavori tra un paio d’anni.”
Ai colleghi torrefattori: un viaggio di questo tipo lo ritiene necessario? Cosa suggerirebbe?
Risponde Giulia Caballini: ”Io consiglio di farlo a tutti i colleghi torrefattori, perché ci si rende conto di tutti i passaggi che riguardano il caffè prima che questo arrivi in torrefazione e poi è un’occasione incredibile di arricchimento dal punto di vista umano.”
Giorgio Caballini: ” Una delle cose che mi ha colpito di più forse è stupida, ma è la considerazione che di tutti i frutti che mangiamo il caffè è quello di cui utilizziamo il seme e buttiamo la polpa, mentre con la frutta che siamo soliti mangiare è il contrario. Durante l’Umami Coffee Camp ho imparato tante cose, alcune delle quali conoscevo già, ma dal punto di vista umano e pratico è stato molto utile. Al punto da volerlo ripetere o nello stesso Paese o in altri stati.”
Alla luce di quest’ultimo viaggio e di questi ultimi anni di lavoro in azienda, con l’entrata di Giulia in Dersut, quale sarà la sfida più importante che come torrefattori italiani vivrete nei prossimi anni?
“Credo che l’unica arma che ci permette di battere la concorrenza delle grandi multinazionali sia la qualità, l’istruzione della nostra clientela, la nostra partita la giochiamo al rialzo sul miglioramento della qualità del prodotto. Tutti dobbiamo imparare, fare formazione e poi trasmettere le nostre conoscenze al mercato e ai nostri clienti.”
Interviene Giulia Caballini: “Il prezzo di una tazzina deve esser ben compreso, dietro quel costo c’è un discorso di sostenibilità, dal produttore nei paesi di origine al barista nei paesi consumatori, quindi un euro è troppo poco per sostenere l’intera filiera.”
La sfida sarà uscire da questo euro per tazza e per riuscire a differenziare?
Il Co. Giorgio: “Dobbiamo far capire qual è il prodotto che serviamo, fornendone uno di qualità superiore. Dobbiamo riuscire ad applicare la medesima mentalità del mondo vinicolo, al caffè. Nel nostro settore è più complicato perché i clienti hanno meno cultura del prodotto rispetto a quelli del mondo del vino. Dobbiamo continuare ancora con più forza a far capire ai baristi e ai nostri clienti finali quali sono i pregi di un prodotto di qualità e quali i maggiori difetti.”
Il progetto del Caffè espresso italiano quale patrimonio dell’Unesco come sta procedendo?
“Il progetto continua con un grande lavoro di formazione, attualmente sono state inserite parecchie interviste, circa 70, nel database dell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo per supportare la domanda di candidatura all’Unesco. Inoltre nel Consorzio abbiamo raccolto altri 10 video che raccontano le varie fasi di tutta la filiera per erogare un espresso italiano tradizionale; è stato un grande lavoro che ora spero porterà la commissione italiana dell’Unesco a inviare la pratica a Parigi, dove mi auguro che ottenga un riconoscimento quale patrimonio immateriale dell’umanità.”
Giulia Caballini: “Per finire io vorrei ringraziare tutti, da chi ha organizzato questa splendida avventura in Honduras a chi ha partecipato, spero che potremmo ospitare in futuro qui a casa nostra Panchito e la sua famiglia in occasione dell’inaugurazione di questa nostra piccola piantagione di caffè in serra, magari sfruttando qualche altro consiglio da loro.”