MILANO – La torrefazione è molto forte e diffusa lungo tutto lo Stivale, per cui, in mezzo a così tanti numeri, spicca una realtà come Bontadì, l’impresa torrefattrice più antica d’Italia, nata a Rovereto nel 1790 e oggi sotto la guida di Stefano Andreis, ha segnato sicuramente la storia di questa industria del made in Italy.
Andreis, Bontadí è la torrefazione più antica d’Italia: ci racconta un po’ la sua evoluzione attraverso le sue tappe più significative fino ad oggi?
“E’ tutto documentato presso la Camera di commercio, perché ho voluto accertarmi che fossimo davvero intitolati di questo primato: era una storia che veniva raccontata di padre in figlio, ma in effetti è constatabile andando proprio presso la Camera di Commercio sui documenti ufficiali lì conservati.
Abbiamo ottenuto un’onorificenza rilasciata, che ci ha riconosciuto il merito dell’ininterrotta attività dal 1790.
Bontadì è stata innanzitutto una grande famiglia di coltivatori
Che operavano nell’attuale pianura padana, finché Carlo ha avuto l’intuizione di sfruttare la configurazione geografica del luogo: il flusso di ingresso delle merci all’epoca era il passo del Brennero ed essendo zona di confine, Carlo ha deciso di aprire il ramo d’azienda della torrefazione che poi è rimasto sino ad oggi.
I Bontadì da allora sono sempre stati innovativi e attenti al cambiamento, ciascuno, di generazione in generazione, ha portato qualcosa in più in termini di materia prima. Il capo dinastia, Iperide, nel 1890 abbandona tutte le altre categorie merceologiche per concentrarsi sul caffè: cosa straordinaria all’epoca perché erano soltanto 16 anni che esisteva una macchina per espresso.
Era una vera e propria scommessa per l’epoca.
L’ha fatto innanzitutto in quanto molto appassionato del seme e quindi ha voluto investirci.
Dopodiché nei primi del ‘900 arriva Leo con le prime macchine a motore elettrico; Remo orfano del padre, ha dovuto scegliere di portare avanti l’azienda familiare. Nel 2004 è rimasto presidente onorario, anche con l’ingresso come holding Diamante nell’azienda: ne abbiamo mantenuto intatte le configurazioni artigianali, sempre procedendo sulla via dell’innovazione.”
Dalla vostra lunga esperienza e punto di vista, come sì è sviluppato l’industria della trasformazione del verde in Italia e all’estero?
“Anche se vediamo una macchina apparentemente statica, come la tostatrice che dal ‘800 è rimasta quasi identica a quelle odierne per le sue componenti meccaniche, il tamburo, la vasca di raffreddamento, c’è sempre stata innovazione attorno alle attrezzature.
In realtà ho assistito ad un minore sviluppo nella formazione dell’uomo dietro la macchina: il protocollo dell’industria 4.0. è straordinario, ma la macchina oggi va molto più veloce rispetto alle competenze maturate dall’uomo.
Ci sono oggi parametri straordinari a disposizione del roaster e siamo al picco della tecnologia, ma il nostro mastro tostatore resta la figura chiave del processo: ad esempio, non accetta in toto l’automazione e anche quando ci sono i profili già impostati, lui è capace di sentire ad orecchio quando la pellicola del chicco si rompe e questo cambia di giorno in giorno a seconda di fattori esterni, varia di qualche secondo.
La super macchina rende apparentemente superflua l’azione dell’uomo, ma il personale deve possedere la manualità.
Stesso discorso per il barista, che determina la qualità della tazzina finale. Non essere in grado di usare il macinino e non saper settare la macchina, determina un prodotto che non è all’altezza del lavoro fatto dietro.
L’innovazione quindi c’è, ma dobbiamo stare attenti a non adagiarci sugli allori rispetto alla concorrenza dell’estero, dove stanno lavorando molto bene.
Gli svizzeri e i tedeschi oggi hanno aziende che rispondono a strutture che forniscono attrezzature all’avanguardia in molti casi superiori alle nostre.
Per questo noi abbiamo aperto un’accademia per i nostri dipendenti e i nostri clienti. Sta andando molto bene: riusciamo a far capire al ristoratore che viene a chiederci un prodotto ad un prezzo basso, che invece è una cosa fondamentale anche per lui che la tazzina sia di altissima qualità. Così come è importante la manutenzione e la pulizia.”
Oggi per un torrefattore, è sostenibile continuare a mantenere il prezzo dell’espresso così basso?
“E’ veramente difficile per chi fa qualità rientrare dentro questo prezzo. Ci sono aziende che si pongono sul mercato per un discorso concorrenziale di prezzo e non fa bene alla categoria. Ce ne sono altre che agiscono con il comodato d’uso e poi ce ne sono altre che si concentrano sul valore e la qualità del prodotto. Noi siamo fra quest’ultime.
Per cui l’euro ci sta molto stretto e non fa bene alla qualità del prodotto. Il problema è proprio la non conoscenza del mondo del caffè: oggi si va al supermercato e non si capisce quale sia il migliore disponibile.
Bisognerebbe evolversi dall’essere una delle categorie merceologiche attorno a cui c’è più ignoranza. Il barista non sa che esistono prodotti che costano di più perché hanno un valore maggiore e viceversa.
Non è la caffeina che fa male, ma tutte le altre sostanze che nascono da una bassa qualità e una scorretta processazione. Tramite la nostra accademia diamo questo tipo di formazione. Con molti riusciamo ad intavolare un discorso differente, compatibilmente con il momento storico economico che stanno vivendo, ma la qualità sul mercato ancora non è all’altezza. In questo modo perde tutto il mondo del caffè ed è frustrante.”
Una delle forme più diffuse nel tempo è il comodato d’uso. Quali sono i vantaggi per una torrefazione di proporre una modalità commerciale di questo genere? E secondo lei è qualcosa che è ancora applicabile nel mercato di oggi?
“Non condivido questa pratica perché chi vende caffè deve fare principalmente quello. L’unica cosa di positivo del comodato d’uso è l’assistenza per il cliente e noi ne beneficiamo perché così il prodotto viene erogato correttamente più o meno da subito.
Lo svantaggio è che ci sono dei costi davvero incredibili da sostenere per noi torrefattori. Il comodato non paga il prezzo e il valore della tazzina.
Nel 99% dei casi in Italia viene attuato, mentre all’estero non esiste. Ma va a discapito della qualità. Ed è una concorrenza sleale rispetto a chi vuole impegnarsi a divulgare la conoscenza del prodotto.
Bontadì è riuscita ad affermarsi e a resistere in tutti questi anni, perché ha sempre tenuto conto dell’innovazione. Vince chi sa adattarsi meglio al cambiamento: abbiamo saputo evolverci, specializzarci, attraversare le grandi crisi economiche del mondo.
Siamo piccoli, a 50 metri della piazza principale della città al centro storico, dotati però di una tecnologia innovativa 4.0 e siamo stati i primi ad aver raggiunto un certificato in merito alla sostenibilità proprio a inizio anno.
Siamo ancora sul mercato perché, seppur in periodo molto difficile caratterizzato da costi altissimi tra materia prima e trasporti in cui avremmo potuto tagliare sulla qualità, non abbiamo mai voluto scendere a compromessi.
Utilizzando sempre le miscele migliori che abbiamo potuto lavorare per i nostri clienti. Abbiamo inghiottito qualche rospo, perché alcuni clienti ci hanno dovuto lasciare per le difficoltà economiche che hanno affrontato, ma noi siamo rimasti fermi sulla nostra visione.”
Arabica, Robusta: il rapporto commerciale con le origini sta cambiando o dovrebbe cambiare secondo lei?
“Se noi chiediamo a 100 signore qual è la varietà migliore, risponderanno che è l’Arabica. perché i brand negli ultimi anni hanno lavorato spingendo sulla comunicazione di questa varietà.
Invece bisogna far capire che ciò che c’è nell’Arabica non c’è nella Robusta e viceversa: tra le due varietà ci sono differenze, già a livello di numeri di cromosomi ed esistono di bassa qualità in entrambi i casi. La commistione tra le due, deve esser valorizzata nelle miscele.
Oggi il Vietnam sia diventato il maggior produttore di robusta ed è perché si stanno convertendo le risaie in piantagioni di caffè. Ricordiamoci che questa coltura restituisce in tazza ciò che prende dal terreno e che il Vietnam fa crescere un prodotto di bassa qualità. Questo Paese è entrato in un momento di crisi economica del mercato e molti hanno scelto questa origine.
Un’altra cosa che vedo è un cambiamento nei prossimi anni: la Cina ha investito molto nell’Africa, che ritengo uno dei migliori microclimi per la coltivazione del caffè. In futuro vedremo se la Cina coglierà l’opportunità di fare qualità piuttosto che grandi numeri.
E ancora, si dovrebbe perseguire la via di un contatto diretto con i coltivatori. Come Bontadì abbiamo provato a farlo con Slow Food, che però pone un problema di discontinuità nella disponibilità del prodotto.
Si dovrebbe partire però da lì per capire le problematiche della filiera, che è molto disgiunta e non è interconnessa tra le sue parti. La catena verticale sarebbe quella migliore da realizzare.
Sarebbe necessario farlo, per tutelare la qualità della materia prima in tutte le fasi: se il caffè è stato stoccato male, noi torrefattori non possiamo fare molto per valorizzare il prodotto durante la cottura.
Sarebbe opportuno comunicare per evitare che avvengano troppi errori in fase di produzione di trasporto. Il problema, soprattutto con noi piccoli, sono i costi di trasporto, quelli gestionali. Non riusciamo ad aggregarci per poter scegliere i contadini con cui lavorare.”
I macchinari per tostare hanno conosciuto una trasformazione tecnica negli anni a sostegno del torrefattore: che cosa significa all’interno di una realtà così antica come Bontadí?
“Bontadì oggi è certificata per la sostenibilità e risponde a tutti i protocolli 4.0. siamo attenti a tutto ciò che porta novità in termini di tecnologia e abbiamo una massima attenzione ai collaboratori. In azienda siamo in 8, più due esterni.
Da noi, il connubio tra uomo e posto di lavoro come simbiosi tra dignità e professionalità deve esser valorizzato al massimo: chi viene da noi a lavorare deve esser contento, perché agisce per gli altri, contando sulla tecnologia e la sua preparazione.
Bisogna distinguere l’innovazione dalla tecnologia. Esser innovativi è il mettere a disposizione la tecnologia al personale formato. Senza prepararli a dovere, si potrebbe parlare di esser tecnologici ma non innovativi.
Avere una macchina straordinaria e non saperla usare, non porta ad alcun risultato in termine di innovazione. Il connubio uomo-macchina deve esser portato avanti parallelamente. Per il resto, siamo sempre molto attenti alle nuove uscite.
Facendo un rapido excursus: nel 1884 nasce la prima macchina per espresso, nel 1948 Achille Gaggia brevetta la macchina con la leva, nel 1960, Cimbali brevetta il sistema a estrazione a idraulica e inserisce il sistema a pompa, nel 1961 Faema brevetta la Faema E61 con lo scambiatore di calore e l’infusore che riesce a gestire la pressione della macchina. L’innovazione tecnologica e il salto di qualità: il caffè è con l’acqua che arriva dalla rete idrica corrente, va nello scambiatore ed entra nel porta filtro.
Quella Faema E61, fa lo stesso caffè che può preparare una macchina di ultima generazione, poi sta nella bravura del barista saperla usare. Oggi ovviamente ci sono tutte le componenti elettriche, elettrotecniche e elettroniche, ma il concetto alla base resta quello: l’uomo deve saper lavorare bene questa macchina. “
Ora con l’arrivo dell’online, il vostro approccio alla vendita è cambiato?
“L’online è uno strumento straordinario. Ci permette e ci ha permesso durante il lockdown di restare operativi anche oggi in un contesto internazionale per il mercato domestico. Senza questo canale sicuramente non potremmo entrarci.
Molti vedono nel web problemi legati alla concorrenza e perdite in termini di vendita, io invece vedo questo mondo come a qualcosa a cui dobbiamo esser preparati.
E quindi torniamo alla formazione dell’uomo. È un mercato statico, è difficile conquistare un cliente senza la possibilità di coinvolgerlo emotivamente come avviene da noi in negozio. Il nostro racconto dal vivo, può convincere il cliente all’acquisto di un determinato prodotto.
Principalmente esportiamo in Sud America, in tutta Europa, in Cina, dove abbiamo un mercato abbastanza ampio. Per il canale domestico siamo radicati molto sul territorio nelle zone limitrofe. E con l’online raggiungiamo tutto lo Stivale.
In Cina si beve poco espresso e una bevanda più lunga. Bisogna assecondare il loro modo di consumo. Gli investimenti che stanno facendo – ha cominciato nel sud a coltivare il caffè, acquistando i diritti di coltivazione ai tropici dell’Africa – mi portano a credere che a breve diventeranno dei torrefattori loro stessi.
A noi hanno chiesto di aprire di là, ma noi vogliamo lavorare qui in Italia.”
Quali sono i prossimi progetti per Bontadí verso sostenibilità e tracciabilità della filiera?
“Il nostro futuro è quello di restare ricettivi alle innovazioni, e di mai sottostare alla bassa qualità. Essere pronti ad affrontare qualsiasi di mercato e di crisi.
Faccio due paragoni: essere pronti e preparati significa fare un viaggio dal Brennero alla Sicilia su un’autostrada con tutte le indicazioni per fermarsi, sostare, riposare e di quanta strada manca.
Farlo senza comunicazioni, significa procedere con angoscia, come trovarsi di fronte ad un burrone con il rischio di precipitare.
Oggi non esiste più un solo uomo al comando, un manager che dirige in solitaria, ma uno che sa far squadra e coinvolge i collaboratori e non dipendenti. La strada deve esser affrontata in maniera univoca in team.
Investiremo su tecnologia e sulla formazione del personale, dando una stabilità del posto di lavoro.”