MILANO – Cosa ci fa un esperto di specialty coffee nella Chocolate Academy di Barry Callebaut a Milano? La risposta arriva dal diretto interessato, Davide Spinelli, che ha trovato il legame tra il cioccolato e il caffè nella ricerca di qualità, tracciabilità e soprattutto, abbinamenti.
Un percorso esplorativo di quest’altra filiera, nato da ChocoGioia SanSperate, maitre chocolatier, durante diverse lezioni in una scuola di Cagliari in cui ha sperimentato i primi abbinamenti dai più classici (cioccolato e rum, cioccolato e vodka) a quelli più insoliti con il cibo.
Il viaggio conoscitivo continua con i ragazzi di VaiCacao, con i quali ha collaborato per portare la cascara di cacao in una delle sue gare. Come ha raccontato Spinelli: “Questa scelta rispecchia la mia volontà di presentare nelle competizioni delle idee di recupero degli scarti della lavorazione.”
E da un anno a questa parte, il lavoro con il cioccolato continua con un colosso come Barry Callebaut.
E’ proprio nell’Accademia di Via Morimondo 23 a Milano che si muove sorretto da un ambiente stimolante, con giovani stagisti che vanno avanti e indietro tra i laboratori in divisa.
Ovunque si poggi lo sguardo, un input diverso: all’ingresso una fila di tubi a portata di tutti con cioccolati vari in formato caramella, il frigo che conserva al suo interno succhi nati dal riutilizzo di materiali come la cabossa, da una parte la stanza dedicata al corso sul gelato con gli studenti seduti e attenti, dall’altra quella in cui un cioccolatiere sta lavorando con letteralmente le mani in pasta, al piano di sopra la stanza dei blind test e infine, l’habitat di Spinelli, il banco bar – sempre però arricchito da tanti tipi di cioccolatini da cui servirsi -.
Spinelli entra a far parte del progetto nel 2023
Che descrive come: “Un lavoro di squadra – capitanato da Hernán Marcovecchio Business Development Manager HoReCa & Chains Beverages di Barry Callebaut – che si muove coeso per la creazione di bevande che siano adatte a tutti i clienti, senza però trascurare la sperimentazione di ricette originali. Abbiamo studiato delle varianti del classicissimo Espresso Martini al cioccolato o anche soluzioni più creative come la rivisitazione del Bloody Mary con olio d’oliva, bottarga e cioccolato fondente per un effetto wow.
Il risultato: un drink che stupisca chi legge il menù e apprezzi questo specifico cocktail.
L’abbiamo costruito pensando alla parte sapida con la bottarga, alla spezia amara conferita dal dark chocolate al 64% – abbiamo studiato che abbassando un po’ la proporzione, si raggiungeva il bilanciamento perfetto tra dolce e amaro – e all’acidità dal pomodoro, con qualche goccia d’olio per fornire la cremosità in bocca e la vodka.
Questa è una ricetta che può trovarsi anche sul menù di un ristorante, ovviamente con un prezzo più alto del classico drink: ma se si vuole essere un locale con un taglio diverso dal solito, il costo è giustificato. “
Mentre racconta, Spinelli prepara il suo caffè dall’Uganda il caffè portato nella gara ibrik, in filtro
“Con questo progetto vogliamo sottolineare l’importanza della materia prima e di limitare l’uso dello zucchero. Abbiamo anche formato un panel test per strutturare la scheda d’assaggio e di valutazione, strutturandole in maniera più semplice con cinque voci e referenze di flavor così da poter cambiare le ricette. Questa è la parte più divertente della ricerca.
Quella più difficile è paradossalmente occuparmi delle cose più semplici: confrontarsi con grandi clienti significa spiegare che la qualità può avere la priorità nella creazione delle ricette anche a costi più sostenuti.
Il Gruppo dà comunque il proprio supporto alle iniziative come ad esempio quella di sfruttare la mia esperienza nel mondo dei campionati barista per portarvi il cacao nella sua totalità, comprese le parti come la cascara, la cabossa e i loro abbinamenti possibili con il caffè.
Lo scopo è far notare che, quando si fanno le cose di qualità, si paga un po’ di più e si fanno volumi minori ma generando maggiore benessere e meno sprechi: per questo è importante portare avanti anche il discorso della tracciabilità sul cacao come con il caffè.
Su questa linea vorrei costruire una rete, basandomi sui miei contatti alle origini, per portare gli uomini del progetto nelle piantagioni a toccare con mano la materia prima, sia la fava di cacao che la drupa del caffè.
L’obiettivo è quello di riuscire a coltivare alle origini e arrivare direttamente al consumatore finale, sapendo la provenienza, i passaggi che intercorrono tra la fava e la cioccolata (o l’infuso per esempio). Spero di riuscirci nell’arco del 2024, presentando un programma di attività e di costi previsti per entrare in contatto con i produttori.”
Cosa avete prodotto fin qui come abbinamenti?
“La linea Van Houten 5 colori è una gamma di cioccolato grattugiato, un formato innovativo con una granulometria studiata per poter sciogliere facilmente e creare abbinamenti con il caffè sia freddi che caldi.
I risultati sono molto interessanti soprattutto su linee entry level: non mischierei un Geisha con il cacao, ma è sufficiente usare un buon caffè per ottenere comunque un abbinamento di successo.
Ad esempio, il golden – puro cioccolato bianco a cui hanno caramellizzato gli zuccheri del latte, come se lo avessi scottato in una padella per dare l’effetto caramello con l’aggiunta di un pizzico di sale – messo al posto dello zucchero in un cappuccino o in un flat white è l’abbinamento più sicuro da cui partire.
Il Ruby ha un grande potenziale può essere anche usato come ingrediente per dei drink o per creare una mousse: l’accostamento migliore fin qui realizzato, è con la bevanda a base di cocco.”
Spinelli, sono richiesti dai clienti?
Spinelli: “Nei vari locali, dalle catene a tutte quelle realtà disposte a sperimentare, il riscontro fin qui è stato buono: è più facile entrare in una caffetteria che serve già una tazzina medio buona o in una cioccolateria aperta ad occuparsi della parte caffè, piuttosto che inserirsi nei coffee shop di specialty che ancora non pensano al cioccolato come ad un prodotto interessante per la loro offerta, soprattutto in Italia. C’è una sorta di barriera derivata dagli estremismi che ancora resiste.
Io dico: il caffè dev’essere buono. Anche senza avere uno specialty, si può valorizzare la tazzina che si serve rispettando gli ingredienti che si hanno a disposizione.
Al di fuori dell’Italia le cose sono un po’ differenti. Per esempio a marzo dovremmo andare ad Oslo, per discutere con una torrefazione che tratta anche specialty – lì si parla di caffè buono già di base, uscendo da definizioni rigide – e che vuole aggiungere alla sua gamma anche la parte del cioccolato, studiando proprio il nostro progetto per poi metterlo sul mercato.
Diamo la possibilità di una session di ispirazione guidata da me: spiego cosa e come fare, condivido le ricette e poi ognuno adatta queste informazioni al proprio mercato di riferimento. Naturalmente fornisco anche dei numeri pratici tra food cost e tempi di preparazione.
Ad esempio: Bloody Mary cost 4,20, Golden foam Martini 4,05, Margarita golden 3,91 per una realizzazione (con linea pronta e attrezzature) sotto al minuto nei cocktail bar.“
È più probabile interessarsi agli alcolici o agli analcolici per il vostro target?
“Molte ricette sono analcoliche in quanto sono più facili da realizzare: il cioccolato come il caffè, contenendo molte parti grasse, è difficile da lavorare per risultare più esteticamente godibile. Noi ovviamente ci siamo riusciti e abbiamo reso possibile la sua replicabilità per il barista formato.
Negli ultimi anni poi è cambiata anche l’abitudine di consumo all’interno di gelaterie, pasticcerie, cioccolaterie: in un aeroporto ad esempio, l’italiano chiede un espresso ma anche una birra o un drink. Proporre una versione alcolica in gelateria ai genitori e quella analcolica ai figli, non è più una cosa rara. Noi abbiamo creato un Margarita con il golden ad esempio, perché ha un fondo salato che ricrea il collegamento.
C’è da dire poi che per gli abbinamenti non si deve stravolgere così tanto: i sapori sono sempre il dolce, l’acido, l’amaro, il salato e il sapido.
Si ha quindi una base da sostituire, che sia acida, amara o dolce e da lì si deve capire al limite come reagisce la parte grassa con quella acida.
A livello di praticità ha funzionato in assoluto di più l’Espresso Martini, con espresso, cioccolato al latte e vodka, e la possibilità di aggiungere una foam al cioccolato bianco. È la ricetta più semplice per tutti. “
E per quanto riguarda il food pairing specialty-cacao, Spinelli ha sperimentato qualcosa?
“Già all’inizio della mia carriera avevo studiato un abbinamento semplice, tra un Etiopia e un sandwich con pane di segale, avocado, pomodoro e lattuga. L’acido, il croccante, il tostato, si sposavano con la parte dolce e acida del caffè.
Sulla stessa linea abbiamo ideato insieme ad una pasticcera, una variante della lemon tarte con un caffè colombiano: l’acidità della torta e la sua cremosità, veniva ripulita dal Colombia e viceversa, innescando un meccanismo di degustazione ciclica.
Così stiamo cercando di fare con il cacao: si deve lasciare in testa l’idea di continuare a mangiare e bere anche con abbinamenti tra dark e salato: ad esempio il bun al cacao con una salsa barbecue al cioccolato e una fetta di formaggio in realtà di cioccolato, lattuga e pomodoro.
Le soluzioni sono tante, giocando sempre con l’acido, amaro, salato, dolce.
Anche una cioccolata calda in stile di irish coffee con della carne, sta molto bene. Il cioccolato bianco o il Ruby possono essere impiegati per una salsa dolce a contrasto di qualcosa particolarmente acida. “
E invece realizzare versioni vegane?
Spinelli: “Il cioccolato ha quasi sempre tracce di latte o di proteine animali. Il cioccolato vegano fatto con le bevande vegetali, non avrebbe denominazione, perché dovrebbe comunque avere una percentuale minima di latte vaccino.
Per le versioni vegane proponiamo il cioccolato dark, abbinato a un latte di mandorle o di avena è già una base adatta a tutti.
Si può preparare il cacao sotto forma di bevanda: la grande industria non lo farebbe per questioni di quantità, non può cambiare la routine delle attrezzature al di sotto di una determinata tiratura.
Al momento le uniche bevande totalmente vegane si possono fare con il fondente e le bevande vegetali, come quello alla nocciola, con cui si ottiene una sorta di gianduiotto. Con quella al cocco, si realizzano i cappuccini con il cioccolato invece che con il caffè.”
A proposito, tutta la linea di produzione è certificata gluten free, so che è scontato, infatti non è riportato in etichetta, ma è bene ricordarlo.”
Voi state portando lo specialty nel mondo del cacao, ma si può fare il processo inverso?
“E’ un’altra cosa che vorremmo fare, ma innanzitutto ci occuperemo di far avvicinare il cacao allo specialty. Per il processo inverso ci sono tante difficoltà da affrontare, anche perché gli stessi professionisti che sponsorizzano il caffè, spesso sono i primi ad aver bisogno ancora di formarsi ulteriormente sulla materia prima: quindi per ora dobbiamo portare il prodotto e comunicarlo. Iniziando dal caffè e facendolo assaggiare, si può aprire la strada futura.”
Avere un partner come Barry Callebaut è utile a fare divulgazione sul prodotto di qualità o è difficile perché si tratta comunque di produzione su scala industriale?
“All’interno di questa realtà i tecnici sono preparati e trasparenti, ma spesso ci sono le classiche problematiche delle aziende troppo grandi, ovvero le linee di comunicazione spesso sono lunghe.
Con Barry Callebaut sono riuscito ad entrare in contatto con delle aziende che industrializzano i processi, ma allo stesso tempo riescono a mantenere un controllo assoluto sulla materia prima. È una buona esperienza per sfatare qualche pregiudizio: vedere con i propri occhi, forti della propria competenza, fa scoprire molte cose.
Barry Callebaut ha compreso che spingere sulla qualità è il futuro. Hanno chiamato me come esperto di specialty, rispettando il loro modus operandi di avvalersi di professionisti per ciascuna categoria: c’è lo specialista del gelato, della pasticceria e della caffetteria. E questa è una differenza rispetto a quello che ancora spesso capita con il caffè: in questo caso, da barista, posso dare il mio punto di vista come professionista.
Il brand ambassador in Barry Callebaut si concentra sul racconto, la comunicazione, la condivisione dal punto di vista tecnico dei pro e dei contro: poi c’è l’agente commerciale. Sono stato sempre interpellato come esperto che parla con il cliente ed eventualmente discute anche di food cost e di tempistiche di preparazione per ciascuna ricetta.
Nel caffè, siamo abituati al commerciale che porta il cliente dal barista che però si occupa soltanto dell’estrazione e poi si parla in un secondo momento del caffè.
Funziona diversamente solo nel caso delle attrezzature: il mondo delle macchine espresso negli ultimi anni, sfrutta il brand ambassador. Ma potrebbero lasciare ancora più spazio.”
E quindi quali sono i prossimi step di questa sua esperienza?
“Il prossimo anno si prospetta l’avvio di corsi proprio di caffetteria: attualmente mi occupo del beverage, ma ci sono già dei clienti che hanno fatto richiesta per alcune nozioni base nella preparazione dell’espresso e nella gestione del latte al fine di arrivare poi al beverage.
I nuovi corsi si focalizzeranno sul far capire la differenza tra un caffè ben fatto e uno estratto male, e le motivazioni che stanno dietro il primo e il secondo.
L’azienda ha già chiesto anche di inserire il caffè filtro e di usare il cold brew per creare le bagne e da usare nel gelato. Qui si parte da un brand che ispira, poi si deve arrivare al manager del bar che a sua volta deve trasmettere la visione ai suoi dipendenti. In questa catena di passaparola, nessuno deve sussurrare. “