di Iolanda Barera*
Rimani senza lavoro. Mandi decine di curricula, ma non trovi nulla. Poi ti viene l’illuminazione: mi metto in proprio, apro un bel bar. In quanti ci staranno pensando. E’ un’idea folle?
Cominciamo dall’inizio. Aprire per quanto costoso è più semplice ed economico, dopo la liberalizzazione delle licenze. Non servono diplomi specifici e, tutto sommato, gli step burocratici non sono così pesanti.
Il problema viene dopo. Si chiama: resistere. Secondo la Fipe (Federazione italiana pubblici esercizi), sigla aderente a Confcommercio, un bar su due non raggiunge i cinque anni di vita.
Vedendola dal lato positivo c’è chi da questa attività ricava soddisfazioni, anche economiche: sempre una recente elaborazione Fipe dice che i bar in Italia sono quasi 150.000, ci lavorano oltre 360.000 persone e generano consumi per 18 miliardi di euro.
E ci sono modelli di business che hanno saputo reagire meglio alla contrazione della domanda, a partire dal bar pasticceria o gelateria, fino ad arrivare al lunch bar con cucina.
Ma è anche un mondo dove il turnover è altissimo, per giunta con le aperture superate ampiamente dalle chiusure: oltre 8mila contro più di 13mila solo l’anno scorso. E dove, oltre alle cessazioni (con Piemonte, Emilia Romagna, Lazio e Veneto in prima fila), ci sono le riduzioni.
“Sono in crisi i bar gestiti dalla famiglia, ma anche le grandi imprese: nel 2014 hanno perso il 10% degli occupati, numeri spaventosi” dice Lino Stoppani, presidente delle Federazione. Per i dipendenti del settore (sei su 10 sono donne), tra l’altro, la situazione pesa anche con un contratto che non si riesce a rinnovare da tempo.
Ma perché così tante chiusure? La Grande Crisi, con la contrazione dei consumi, è ovviamente la maggior imputata. Ma non la sola, secondo Stoppani.
L’improvvisazione per chi apre un locale è altrettanto pericolosa: “C’è molta approssimazione nell’approccio alla professione – dice sempre il Presidente Stoppani – è considerata un’attività facile da gestire, mentre richiede competenze sul prodotto, nel servizio e manageriali. Bisogna saper gestire crediti e debiti, i rapporti con le istituzioni sugli aspetti igienico sanitari oppure con il fisco per esempio”.
E poi ci sono i competitor che con la liberalizzazione, nel bene e nel male, si sono moltiplicati e diversificati.
Il presidente Fipe la vede al negativo: “Siamo troppi e subiamo una concorrenza parallela e spesso sleale, perché qui non esiste il principio fondamentale in economia dove al concetto dello stesso mercato corrisponde quello delle stesse regole. Se ha un circolo privato, una onlus, un agriturismo o una gastronomia fa il mio stesso lavoro senza i miei oneri. E non è giusto”.